Sabato 29 giugno Milano era calda, terribilmente calda per colpa di un cambiamento climatico disturbante. Sabato 29 giugno Milano era calda, terribilmente calda, grazie a un cambiamento sociale necessario. La convocazione del Milano Pride 2019 era per le 15.00 a Piazza Duca D’Aosta, l'hashtag era #Proudtobepride e in tanti, per colpa di quella calura, hanno risposto mestamente all’appello: “no, okay, stavolta passo, sarò con voi con il cuore”. Poi, invece, è partito tutto nel (poco) più accettabile orario delle 17.30 e la festa ha avuto inizio fra cartelloni e slogan cantati, alcuni irriverenti, altri da t-shirt, sul tenore, più o meno: “non c’è bisogno di essere gay per partecipare al Pride, non c’è bisogno di essere un panda per occuparsi d’ambiente”. E così, con un bilancio di 300mila partecipanti, è andata in porto anche l’edizione 2019 milanese del Pride, come viene ormai abbreviato invece di Gay Pride, perché in corso d'opera ha raccolto associazioni omosex di ogni sfumatura e svariate altre categorie, dalle mamme dei gay agli amici dei gay fino a tutt’altro: quest’anno sfilava anche un carro in difesa degli immigrati, sul principio che un diritto civile acquisito, fa da precedente per tutti gli altri. E si pensa già all’appuntamento dell’anno prossimo che è simbolicamente altrettanto importante.




Nel 2020, infatti, saranno passati esattamente 50 anni da quella prima parata che il 28 giugno 1970 ha diviso New York come un fiume da Washington Place fino a Central Park, e che è considerata il primo gay pride della storia. Sui volantini, per non osare troppo, veniva chiamata Christopher Street Liberation Day March, la marcia della liberazione di Christopher Street. Era il nome della strada dove, il 27 giugno 1969, nel bar gay Stonewall Inn, erano esplosi gli scontri fra gli avventori e la polizia che aveva fatto irruzione per una retata, evento che è stato celebrato con i Pride di quest’anno. I membri della comunità gay americana, al tempo, non ne potevano più di essere trattati come criminali, e tutto cominciò quando la transessuale Sylvia Rivera lanciò una bottiglia contro un poliziotto. Un episodio, quello di Stonewall, scaturito dalla necessità di riconoscere il diritto di esistere a una fetta di cittadinanza che lavorava e pagava le tasse come tutti, e che già da allora incontrò più solidarietà fra eterosessuali di quanto ci si aspettasse, dando vita al movimento LGBTQ. Difficile dire in quanti parteciparono al quel primo evento: dalle foto sembravano abbastanza, se teniamo conto che la maggioranza si vergognò di uscire allo scoperto. Non ci furono show, né colori né costumi bizzarri. Eravamo in tempi in cui pur di celare l’omosessualità ci si sposava e si condannava un coniuge a una vita priva di sessualità. Impensabile, vedendo oggi la quantità di adesioni dei pride americani.

In Italia, invece, come racconta anche Gay.it, la prima bozza di un Pride si può considerare la manifestazione del 1972 che protestò contro un convegno medico, a Sanremo, in cui si stava discutendo le terapie per guarire dall’omosessualità. Erano proposte terapie a base di lievi shock elettrici, ipnosi e incontri con donne affascinanti. Il problema, allora, era soprattutto di mascolinità, l’omosessualità femminile era quasi ignorata. In Italia, nello stesso decennio, nacque il F.u.o.r.i., il Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, il primo movimento italiano per i diritti degli omosessuali. Negli anni 80 presero vita sempre più iniziative che spingevano al coming out, l’accettazione pubblica della propria omosessualità, e nel 1992 a Roma il Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli organizzò una grande festa nell’ex cinema Castello dove invitò Moana Pozzi a tenere il suo show per raccogliere fondi per la causa. Il locale si riempì anche di eterosessuali, attratti dalla pornostar, al tempo all’apice della carriera. Solo quando nel 1993 il gay Pride di Washington raggiunse la cifra record di un milione di partecipanti, il resto del mondo si fece coraggio. Nel 1994 partirono ufficialmente i Gay Pride italiani: organizzatori più celebri, Imma Battaglia e Vladimir Luxuria, giovanissimi. La prima mobilitazione è a Roma, e vi parteciparono in 10mila. Altrettanti, forse, i reporter che vennero a immortalare un momento storico. Sempre a Roma, su un’idea di Franco Grillini che due anni dopo verrà eletto deputato, si terrà fra tante polemiche anche il World Pride 2000 che, valutato dai detrattori come un evento che non avrebbe potuto smuovere più di 10mila persone, a sorpresa ne contò invece quasi 500mila.

Nel 2001 anche Milano dà vita al suo Pride con lo slogan Noi, anche!. Madrine della manifestazione, il duo di cantanti Paola e Chiara. Da quell’anno non si torna più indietro e già nel 2004, con lo slogan Famiglie di fatto, di fatto famiglie!, le cifre cominciano a essere importanti, con circa 50mila partecipanti. A parte qualche edizione in cui l’organizzazione del Milano Pride ha deciso di convergere in altre città per dare manforte (nel 2006 verso Torino, nel 2009 verso Genova e nel 2012 verso Bologna), da allora la capitale della moda non ha mollato più il colpo e nel 2015 aveva già raggiunto un numero stimato intorno ai 150mila manifestanti. Sempre più colore, sempre più gioia, e sempre più adesioni anche dagli eterosessuali, fino alla cifra record di Milano del 2019, con i suoi 300mila volenterosi incuranti (o molto zen) sotto il sole. La metropolitana al ritorno, intorno alle 20.30, era un sequel della festa, tra bandiere sgualcite e arcobaleni sfumati sui volti sudati e stanchi, qualche timido bacio. Un bel salto avanti, da quella prima, timorosa parata a New York del 1970, per la quale il tifo si faceva da casa, e in silenzio.

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