Il lavoro di Martina Di Vittorio, Annie Simone ed Elisabetta Simone, studenti presso l'Accademia di Belle Arti di Bari:

“L’irrealtà è quella allucinante somiglianza a se stesso. [...] Noi viviamo già ovunque nell’allucinazione "estetica” della realtà. [...] è così che alla colpevolezza, all’angoscia e alla morte si può sostituire il godimento totale dei segni della colpevolezza, della disperazione, della violenza e della morte.” - Jean Baudrillard (Francesca Alfano Miglietti - Identità mutanti)

Plastik Pamy è il prodotto finale di questo progetto o forse, per meglio dire, di questa società. È una bambola gonfiabile con un profilo Instagram attraverso il quale ostenta eterna bellezza, eterna giovinezza, vita eterna e altre cose di carattere superficiale. L’aspetto esteriore, la “forma” diventa un corpo come linguaggio, un linguaggio capace di parlare dell’universalità della merce, del ricambio rapido, del nuovo prodotto, corpi scelti e selezionati al mercato della notorietà. Diventa un corpo frutto delle mutazioni in cui tutti hanno diritto ad almeno “quindici minuti di notorietà”. Si vive in una società in cui l’apparenza prevale sull’essenza. Una società che crea molteplici prodotti di fabbrica a proprio piacimento, secondo le proprie regole e se qualcuno di questi è difettato non ci vuole molto affinché venga sostituito, come se fosse un misero oggetto di ricambio venduto a poco prezzo sul mercato.

Troppo magra, troppo grassa, troppo alta, troppo vuota. Vige la regola di rispettare la massa, come se avere un proprio ideale fosse un errore. La donna e il suo corpo sono vittime di una società che esorcizza la morte, coperte in viso da maschere per farla sentire più bella, migliore, come se avesse bisogno di false speranze per possedere qualcosa che in realtà già ha. Circondata da pubblicità su creme antirughe, filler, botox e altri trattamenti estetici che lasciano il corpo divenire qualcosa più simile a un prodotto necrofilo, a un qualcosa di artificioso, piuttosto che far imparare ad accettare se stessi e le proprie forme. Ci lasciano diventare come una bambola che viene “gonfiata” molteplici volte da varie persone, come ad esempio nel video, attraverso una pompa simile ad una siringa di un chirurgo, in cui l’avanzamento e l’accrescere dell’azione lascia arrivare al cedimento di questo corpo di plastica.

Per questo quindi l’idea dell’allargamento delle bande nere. È quella voglia di andare oltre questi stereotipi che la società cerca di imporre a chi è ancora ignaro del mondo nel quale vive e lo osserva, lo guarda, capisce il suo gioco e cerca quindi di essere accettato. Dietro questo vi è l’estetica barocca, la liberazione a quei giochi dell’arte che sono non meno “favolosi” che “verosimili". Per questo, come Baldasar Graciàn, abbiamo affidato all’arte la verità d’esser sempre e solo se stessa, di non esserlo mai tanto da apparire menzogna e viva invece dove la si contraddice.

Per meglio comprendere, è necessario citare Erich Fromm e la sua teoria secondo cui l’uomo possiede varie forme di aggressività maligna radicate nel carattere: il sadismo, la passione di raggiungere un potere illimitato su un altro essere senziente, e la necrofilia, la passione di distruggere la vita e la passione per tutto ciò che è morto. Entrambe le forme sono comuni al futurismo e tangibili nella quotidianità e, nello specifico, nel corpo della donna: diventa sadismo ogni volta che si illude di poter essere più potente attraverso la propria immagine, il proprio corpo ed è necrofilo quando lo fa attraverso supporti artificiali.

“Credo nel potere che ha l’immaginazione di plasmare il mondo, di liberare la verità dentro di noi, di cacciare la notte, di trascendere la morte.”
Tratto dal libro “Ciò in cui credo” di James G. Ballard.

Scopri il progetto, i volti, i backstage dei ragazzi che hanno partecipato al progetto