“Facebook nasce per mettere in connessione le persone”. Basterebbe questa semplicissima frase pronunciata da John Cantarella, vicepresidente del Social Good e Community Partnership della F blu nel corso del primo Facebook Community Day di Roma inaugurato da Sheryl Sandberg in persona, a fine giugno 2019, per ricordarci perché scegliemmo di iscriverci segretamente ad una piattaforma. Ere digital-geologiche fa ci piaceva recuperare amicizie lontane, amori estivi, compagni di classe. Oggi Facebook è diventato altro, ma non ha perso il suo focus iniziale di unire persone in nome di un interesse in comune. Nel corso dell’evento al Binario F della stazione Termini di Roma, lo strumento dei gruppi Facebook si è svelato in tutta la sua potenza: una passione, una necessità, una causa sociale trovano il loro perfetto punto di aggregazione. È un’agorà 4.0 che dal virtuale si sposta sempre più facilmente al reale, creando felici rapporti umani tra chi interagisce commentando, chiedendo o dando consigli, cercando anche semplicemente amicizia o sostegno durante momenti precisi della propria vita. Un unico faro: il rispetto delle regole del gruppo, pena l’espulsione e il blocco. Che poi è la stessa regola della vita reale, a pensarci bene.

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John Cantarella

“I gruppi sono stati lanciati 10 anni fa, sono organici, le persone li usano per passioni, cause, interessi. Nel 2017 è cambiata la missione di Fb nel costruire le community e unire le persone. È il core di Fb, e anche il cuore. Cerchiamo le persone più importanti della comunità, che portano la gente insieme per una causa, per una passione. Possono essere gruppi di qualunque tipo: sanità, famiglia, interesse” racconta John Cantarella alla presenza di alcuni community manager dei gruppi italiani su Facebook tra i più attivi e coinvolgenti. Per dare giusto qualche dato: 1.4 miliardi di persone nel mondo sono in gruppi Facebook. In Italia sono almeno 27 milioni le persone coinvolte su Fb e quasi tutte sono iscritte almeno ad un gruppo cui partecipano attivamente. L’Italia ha un bel piazzamento, il 2° posto in Europa, per le attività di interazione nei gruppi. E il sostegno di questi gruppi in Italia e nel mondo è cruciale per la F di Zuckerberg, spiega Cantarella: “Come team facciamo un paio di cose: intanto il Facebook Community Leadership Program, abbiamo stanziato 10 milioni di dollari divisi tra 115 community leaders. Non vogliamo dare solo soldi, stiamo sviluppando anche noi dei corsi Facebook su come usare il prodotto, nel modo migliore per loro” conclude, facendo innalzare un tricolore d’orgoglio con la citazione a Gioia Gottini de I mercoledì della mansardina, la prima community manager italiana ad essere stata invitata a Menlo Park per il suo lavoro nel gruppo Facebook, che sta usando il capitale donato da Fb per dare ai suoi iscritti corsi gratuiti per la formazione. “Quando sentiamo le storie delle persone, capiamo quello che serve. Vogliamo insegnare a questi community leaders come usare il gruppo e le sue risorse” specifica Cantarella.

Impossibile resistere al question time: ci sono più uomini o più donne community leader, nel mondo? “Non è qualcosa che guardiamo o pensiamo. Siamo inclusivi, vogliamo avere persone che fanno cose. Vogliamo toccare più persone possibile che hanno le community su Facebook, dar loro i tools utili per sostenerle” risponde Cantarella. E per la parte sponsor, adv e targettizzazione? “La nostra missione, per me e chi lavora con me, è supportare queste comunità. Nei gruppi non ci sono le pubblicità. le persone del mio team vengono dal community organizer e dal no profit”. E in futuro? Ci sarà questa pubblicità, o che fine faranno le pagine che da vetrina stanno diventando sempre più complesse? “Non possiamo commentare quello che faremo in futuro. Il nostro focus ora non è sulla pubblicità. Le pagine Facebook non hanno perso importanza, ma i gruppi sono qualcosa di diverso e vengono usati in modo diverso rispetto ad una pagina” chiarisce definitivamente Cantarella. E a chi chiede perché su Instagram le cose funzionino diversamente, la risposta arriva in una semplicità quasi banale: sono due piattaforme che si basano su modi di interagire differenti. Per forza di cose, pur essendo della stessa grande azienda di proprietà di Mark Zuckerberg, sono diverse.

I vari community leaders hanno raccontato le proprie esperienze, da zero a cento (iscritti) fino alla delegazione di gestione dei vari impegni che un gruppo Facebook ben nutrito e attivo porta: rispondere ai messaggi, dipanare le discussioni, lanciare i sondaggi che servono a capire se si sta lavorando bene su quell’idea. E continuare imperterriti ad alimentare una passione incredibile, che non scema mai ma cresce grazie all’apporto degli altri. Lisa di Miss Biker su Facebook, ad esempio, ha deciso dopo un periodo di depressione di spolverare un’antico desiderio. “Mi sono svegliata una mattina e ho comprato la moto: non avevo la patente, ma l’ho comprata lo stesso. Mi sono mossa con i motoclub locali, ma erano tutti maschi e molto bravi. Mi sono detta che forse era meglio un gruppo di amiche, magari alle prime armi, con cui condividere. Dopo la prima caduta in moto ho creato il gruppo di missBiker, ragazze motocicliste” spiega, il fervore degli occhi verdi lampeggiante di orgoglio. All’inizio le reazioni dei motociclisti maschi sono state veementi: “Ci hanno considerate una setta, hanno provato a entrare nel gruppo anche con profili falsi, per questo controlliamo sempre le foto, il nome vero e se effettivamente chi chiede di iscriversi ha una moto” precisa Lisa.

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Lisa di Miss Biker (a dx) con Sheryl Sandberg di Facebook (a sx)


“Il primo raduno dopo un anno è stato rischioso: è difficile riunire le donne, specialmente motocicliste, perché sono molto autonome. Però sono venute in 100 a Bassano del Grappa e il meeting point era nel concessionario dove ho comprato la moto. Il caso ha voluto che ci fosse il CEO di Yamaha, che ha chiesto chi lo avesse organizzata. Mi ha invitata da lui la settimana dopo e mi ha detto “dovresti farlo di lavoro perché c’è bisogno di qualcosa che rappresenti il motociclismo femminile”. Le donne in moto vengono tradizionalmente chiamate zainetti o zavorre: il concetto è che sono un peso per l’uomo” prosegue Lisa. E l’orgoglio è di aver contribuito a far sviluppare un’area di nicchia grazie al passaparola tra virtuale e reale, nonostante i durissimi pregiudizi sulle centaure. “In Italia c’è circa il 10% di motocicliste donne ma viviamo in un mondo molto maschilista, non si concepisce il fatto che una donna voglia guidare e sia anche brava. Io cerco di vedere le persone come individui: il mio obiettivo è l’empowerment femminile, far capire alle donne le potenzialità che abbiamo. In Miss Biker non si parla di itinerari e basta, ma anche di problematiche intime e personali dell’andare in moto, estetica, tutorial, di tutto” continua poco dopo, di fronte ad un caffè. Lisa ha le idee cristalline di chi crede nel proprio progetto e si impegna duramente, quotidianamente, nel farlo evolvere senza snaturarlo: “Un gruppo così può insegnare ad un uomo a dare spazio ad una donna. Non siamo inferiori a nessuno, possiamo guidare un mezzo senza essere colpevolizzate anche per questo. Si può fare di più: la mia visione del futuro è dare un sostegno a chi, psicologicamente, non si sente adeguata a quel che sta facendo”.

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Paola e Federica di MaMi Club

Non solo passioni, ma anche periodi di cambiamento della vita possono essere centrali per far crescere un gruppo Facebook. La maternità è stato il motore di MaMi, le mamme di Milano, un club nato nel 2016 pochi mesi dopo la nascita del primo figlio di una delle fondatrici, Federica. “Ammetto che non ero portata per le cose web, Paola invece sì. Volevo incontrare le mamme che vedevo in giro: ne ho invitate 80, siamo diventate 900” sorride Federica. L’obiettivo è chiarissimo: far socializzare e incontrare le mamme di Milano creando un gruppo riconoscibile, affezionato e coeso, legato ad un territorio specifico. “Gestire una community è complicato, ci si sente libere di dire delle cose in modo esagerato perché sei dietro lo schermo. Invece le persone che si vedono dal vivo sono inibite dal comportarsi male, ci pensi due volte prima di usare un certo tipo di linguaggio” prosegue Paola, la sodale del progetto. Tra una foto a cavallo di un unicorno rosa e un caffè, Federica e Paola ammettono che la curiosità dei padri le fa sorridere, ma MaMi su Facebook è sopratutto un punto di accoglienza delle problematiche legate alla maternità contemporanea, dove ci si sente meno sotto pressione nell’ammettere le proprie paure, mancanze o debolezze. “Ognuno può sentirsi libero di esprimere come si sente. Lasciate il giudizio o voi che entrate può rendere l’idea di quello che è il nostro gruppo: ad esempio nel nostro gruppo si parla liberamente di fecondazione assistita, le persone sono in grado di poter esprimere quello che provano. Dentro MaMi ci sono poche inibizioni, pochi tabù, e molto rispetto: la cosa bella è l’inclusione. Le mamme si sentono a loro agio, interveniamo solo quando qualcuno si mette in cattedra o alza i toni. La mia opinione non è il diktat del gruppo, questo ci tengo a dirlo: ognuna fa quello che si sente di fare. Però le regole vanno rispettate, altrimenti da community leader perdi di credibilità” racconta Federica. “Aiutiamo le persone a trovare amicizie e mantenere la nostra community senza toni sbagliati. Noi stesse non ci guadagniamo: la gestione della comunità nasce da una tua necessità, deve essere una passione, non come un lavoro. Abbiamo investito in noi stesse e siamo diventate lifecoach: abbiamo preso seriamente questa cosa, riceviamo 70 messaggi al giorno. E facciamo domande, ci interessiamo alla vita di queste persone in difficoltà per dare loro modo di trovare la propria strada”.

La centralità della propria strada verso la felicità, la stairway to heaven dell’accogliersi per l’unicità che si è, è il tema principe della chiacchierata con le due fondatrici di Belle di Faccia, community sulla (vera) body acceptance e contro il fatshaming che oltre al gruppo Facebook conta una solidissima schiera di followers Instagram. “Ci siamo definite Belle di Faccia da sempre: è stato uno dei complimenti che ci hanno detto più spesso. Ci è voluto un po’ per ricondurre questo “complimento” ad una microaggressione” racconta Mara, una delle due menti dietro al progetto. “La body positivity delle attiviste americane è un'altra cosa: ci siamo rese conto che in Italia veniva raccontata in un modo diverso. Al centro della conversazione abbiamo riportato i corpi grassi, che erano stati marginalizzati per favorire un discorso sull’autostima che non c’entra niente. Se una donna grassa va al mare dicendo mi amo, questo non la schermerà da foto e bulli”.

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“La body positivity è stata assorbita dai brand, che hanno messo la XL per sentirsi progressisti, e dalle influencer magre che magari mostravano una smagliatura e pensavano che quello fosse il progresso. Ma in realtà la body positivity nasce dalla fat acceptance delle nere grasse, trans, povere” prosegue naturalmente Chiara, illustratrice delle vignette che animano il profilo Instagram. Il discorso si fa anche classista: “La salute nei gruppi marginalizzati è peggiore. Il grasso viene visto come una colpa, puoi essere discriminato persino sul lavoro: a parità di qualità, verrà assunta una persona magra. Si può accettare un corpo magro naturalmente, ma un corpo grasso è simbolo di pigrizia. In un certo senso meriti la discriminazione, e oggi è ancora accettata”.

Partendo da queste premesse, mantenere la community scevra da pregiudizi e da attacchi di fatphobia (la paura del grasso) è un lavoro impegnativo per Chiara e Mara, che tutelano la community con strumenti specifici: “C’è un questionario da compilare per capire se le persone sono arrivate ad un certo grado di consapevolezza. Ci sono una serie di regole, come non stare a parlare di diete, per tutelare chi è più indietro e non si è accettato. Un viatico sono i post su Instagram, che sono più militanti” spiega Chiara. Le Belle di Faccia non si tirano indietro di fronte a nulla quando si tratta di stigmatizzare comportamenti discriminatori: il fatshaming è fatshaming sempre, anche quando diretto ad avversari politici, razzisti conclamati o semplicemente persone che ti stanno antipatiche. “Il principio è combattere il bodyshaming, altrimenti continui a diffondere il messaggio che grasso è un insulto”. Per il futuro, la community Facebook e Instagram di Belle di Faccia punta agli incontri dal vivo: “Siamo diventate un’associazione, vogliamo sensibilizzare e diffondere la consapevolezza perché buona parte dei testi sui fat studies non sono ancora tradotti in italiano. Il nostro sogno grande è creare eventi, fare party in piscina e regalare la sensazione di libertà che abbiamo scoperto noi a tutti e tutte”. Dal virtuale al reale, il tuffo è un attimo.