“Ho un desiderio enorme: vorrei portare la mia musica in Cina”. Dechen Shak-Dagsay è di una sincerità che le illumina gli occhi di speranza. La cantante tibetana di mantra tradizionali, superstar dal volto sereno che sembra scolpito in verticale nelle rocce dell'Himalaya, ha la voce che mappa le sue speranze per il futuro. E sembra che una luce calda illumini il salotto della sua casa sulle rive del lago di Zurigo, nel paese che l’ha accolta quando Dechen era una bambina di appena 4 anni. Molto è cambiato dal quel 1963 quando il padre Dagsay Rinpoche, monaco tibetano riconosciuto come reincarnazione del precedente tulku attivo nel monastero di Chokri, nell'est del Tibet, raggiunse la Svizzera. Ad accompagnarlo c'erano la moglie e le figlie, di cui Dechen è la maggiore.

Da allora Dechen Shak-Dagsay ha lavorato per superare le barriere culturali senza dimenticare le sue radici di migrante di prima generazione. Ha studiato, si è sposata, ha avviato una carriera nel marketing che poi ha lasciato senza troppi rimpianti. Il richiamo artistico è stato più forte, l’eredità del Tibet ha guidato la sua nuova vita e dato forma all’impegno: la diffusione più capillare possibile della cultura tibetana nel mondo, concretizzata in progetti di sostenibilità direttamente sul luogo. “Un progetto per avere vestiti tibetani che posso indossare durante i miei concerti. Non c’erano molte persone che potessero realizzare abiti tradizionali, quindi ho chiesto a un monaco tibetano del monastero di mio padre se ci fosse la possibilità di insegnare ai giovani tibetani a farlo, per aiutarli a diventare autosufficienti" racconta indicando le foto dei laboratori di cucito che campeggiano sul gigantesco cartellone appoggiato sul tavolo.

Davanti a un tè allo zenzero, Dechen spiega il suo impegno: "Molti non hanno la possibilità di avere un’educazione adeguata o imparare un lavoro. Ora abbiamo istruito 300 persone e in quella zona ci sono una serie di negozio uno dietro l’altro. È grandioso, perché è importante che i tibetani possano vivere bene in Tibet. Io sono stata fortunata a vivere in Occidente, ho avuto l’opportunità di diventare un’artista e cantare per il mondo. E ho avuto anche le possibilità finanziarie di fare qualcosa”.

Non c’è solo il ricamo: tra un disco, una tournée e un impegno sociale, Dechen guarda molto oltre. Il suo prossimo progetto sociale sarà un po’ diverso: “Il monastero di mio padre è vicino a una strada molto trafficata, l’unica strada che vada da lì a Lhasa. Ci sono tante macchine ma pochissime officine meccaniche, anzi, a dire la verità non ne ho vista nessuna gestita da tibetani. È invece importante che i ragazzi imparino a riparare le proprie macchine: quindi abbiamo ingaggiato un meccanico cinese che vive lì e insegna ai ragazzi a fare questo lavoro. Quando ci sono statanel 2014 mi ha detto: “Sono cinese, ma ho un affetto particolare per i tibetani. E insegnerò loro tutto quello che so”. È un modo bellissimo di cooperare per costruire un futuro insieme”.

Ma la musica è il cuore pulsante delle attività culturali di Dechen. Dopo aver cantato con Ryuchi Sakamoto nella colonna sonora di Piccolo Buddha di Bernardo Bertolucci, nel 2009 è arrivata un’importante visibilità grazie al progetto condiviso tra Dechen Shak-Dagsay, Tina Turner e Regula Curti, Beyond, che l’ha catapultata all’attenzione del mondo intero. E dire che la sua carriera musicale da professionista è iniziata abbastanza tardi, ufficialmente nel 1989 stando alla sua biografia, seguendo una vocazione che non poteva davvero sopire.

“L’obiettivo principale di fare musica è principalmente contribuire all’umanità”

È lo spirito di unione universale che guida i desideri di Dechen Shak-Dagsay: portare la propria musica nel mondo è una missione. Per questo ci tiene tanto che la Cina (ma anche l’Italia, non lo nasconde) sia inclusa nelle tappe di un futuro tour. Mentre dipana le sue aspirazioni, Dechen prende lo sruti e regala un mantra improvvisato che infonde una speranza di armonia universale. Nella dolcezza del suo sorriso e nei lunghi occhi neri che brillano di tenerezza, la sua voce ricama ricordi sull’equilibrio tra vita e carriera in bilico tra Occidente e Oriente, sembra di avvertire vibrazioni ancestrali. “Con i mantra tibetani voglio creare la sensazione che le persone siano abbracciate dalla musica, come una madre che tiene un figlio tra le braccia e gli dona un amore incondizionato. Cerco sempre di esprimere questa sensazione con la mia voce: ogni tono ha una sua energia”.

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Francesca Checchi

Quando hai iniziato a capire che la musica sarebbe stata la tua espressione personale al mondo?
Ho iniziato da giovanissima. La prima cosa che i miei genitori hanno voluto fare quando siamo arrivati in Svizzera nel 1963 è stato creare gruppi di danze tibetane. Era importante, all’epoca, mantenere la nostra cultura: vivevamo in un ambiente nuovo e noi bambini rischiavamo di perderla. Ho avuto la possibilità di imparare danze e canti da mia madre: la mia infanzia è stata davvero piena di ispirazioni tibetane, ho avuto la possibilità di rispettare e mantenere le mie radici. Ho iniziato a cantare i mantra da grande perché ero affascinata dal significato: non era qualcosa che volessi promuovere nel mondo occidentale, se non sei tibetano è difficile capire bene la musica tradizionale. Ma io sono cresciuta qui, in Svizzera, ed era come se avessi entrambi i paesi dentro di me: ho iniziato a inventare melodie principalmente perché mio padre stava scrivendo un libro sulla pratica delle meditazioni tibetane, e mi ha suggerito di cantarne alcuni. Mi ha dato le indicazioni perché suonassero il più tradizionali possibile, così da creare qualcosa di unico e speciale. All’inizio piacevano a poche persone, alla fine sono diventati un successo: sono vent’anni che faccio musica e credo che il mondo abbia bisogno di ascoltarla".

"Non importa il significato, ma l’energia che il mantra porta con sé."

Hai parlato delle due culture, svizzera e tibetana: ti senti più occidentale o senti maggiormente la parte orientale, tibetana, come predominante?
Ora che sono adulta, la mia parte tibetana si rivela molto di più. Ed è bellissimo. La cultura tibetana è così ricca di saggezza, come si possono affrontare le varie fasi della vita, la sofferenza… Ogni vita è sempre stabilita dalla nascita, dal dolore, dall’invecchiamento e dalla morte. A mano a mano, ci rifletti molto di più e la cultura tibetana insegna modi meravigliosi per far fronte a queste cose.

L’eredità di una cultura, lo sviluppo dell’economia, la nuova situazione culturale del paese… Cosa pensi degli sviluppi attuali in Tibet?
È molto positiva. Negli ultimi anni abbiamo visto che anche i tibetani stanno partecipando all’economia del Tibet, ed è necessario. Se vuoi avere una società stabile, ovunque sia, si comincia sempre dando a tutti le stesse possibilità di accesso all’educazione. Sono le basi. All’inizio c’era qualche preoccupazione, le persone non prestavano molta attenzione alla cultura tradizionale. Ma ora le cose sono cambiate, la situazione è migliorata e posso dire che sono molto contenta.

Ho una curiosità: ci sono molti tibetani in Svizzera, o comunque qui vicino? Vi vedete o comunicate spesso?
C’è una grande comunità tibetana in Svizzera. Forse oggi è il paese con il più grande numero di tibetani in Europa, siamo circa 6.000. Da giovane ero più coinvolta negli incontri, grazie ai miei genitori. Ma mia madre non c’è più da vent’anni, e le cose nella vita cambiano. Sono più concentrata sulla mia musica e sulla mia famiglia (sorride), ma mi rende felice che ci sia comunque una bella comunità.

Torni in Tibet spesso, o comunque quanto vorresti?
Vorrei andarci di più, soprattutto per i progetti sociali che ho nel Tibet dell’est. Vorrei che ci fosse un po’ più apertura sui visti da parte della Cina: non è molto facile ottenerne uno per il Tibet. Quindi è difficile tornare e impegnarsi nello sviluppo del paese. Invece tanti vogliono tornare a scoprire le proprie radici. Io sono ancora molto legata al Tibet, visto che sono un’emigrata di prima generazione, ma per le mie figlie è diverso: sono orgogliose di essere tibetane, amano la cultura e si sentono speciali per questa eredità, ma sono più cittadine del mondo. Sarebbe molto bello se le nuove generazioni potessero scoprire il Tibet e le loro radici. I tibetani in Tibet stanno meglio ora rispetto al passato: e alla fine quello che conta sono loro. Sono il focus principale, il fatto che possano sostenersi, lavorare, riuscire a viaggiare. Vorrei tanto che fosse possibile. Le cose sarebbero molto più facili.

Hai nominato le tue figlie. Quali sono le tue speranze per loro nella società di oggi, con il ruolo femminile così al centro?
Penso che già il fatto che siano nate in questo momento storico è un’ottima possibilità. In Tibet le ragazze avevano ruoli speciali ma non potevano mai cambiarli. Ora è diverso: le donne hanno le stesse possibilità di accesso all'istruzione, possono imparare lavori che una volta erano solo degli uomini. Possono avere posizioni di potere, non c’è nessuno che le fermi, e già questo è un punto a favore. Il mio desiderio per le mie figlie è che nello stesso modo in cui stanno educando loro stesse da fuori, lo facciano anche in maniera spirituale. Non devono seguire necessariamente i rituali religiosi tradizionali. Vorrei che trovassero la la loro pace interiore e abbiano un buon cuore, e lo considerino un’evoluzione della loro personalità. È qualcosa che in realtà ogni madre vorrebbe per le proprio figlie.

E per te stessa? Qual è il tuo più grande desiderio?
Ho questo grande desiderio, vorrei suonare in Cina con il mio Jewel Ensemble, sono grandi musicisti svizzeri. Quando sono stata in Cina l’anno scorso, invitata dalla provincia di Sichuan, ero con la mia produttrice ed sono stata sorpresa di vedere che c’era già un mio pubblico. Sin da bambina ho avuto questo sogno di contribuire, ovunque sia necessario, portando comprensione, pace, armonia. Sono stata chiamata a farlo. È importante che facciamo del nostro meglio, ognuno nei nostri campi, per promuovere questi valori nel mondo.

Dechen Shak-Dagsay si ferma, raccoglie i ricordi e continua con un piccolo sorriso: "Quando ero bambina volevo creare la pace ovunque ci fosse un conflitto. Ero sempre quella che cercava di rappacificare le persone in contrasto. Tutti creiamo problemi quando non siamo in pace con noi stessi. Quando ti senti bene, sei più tollerante, comprensivo; quando sei stressato no, una cosa minuscola può diventare enorme. Ho trovato la mia voce ed è di molto sostegno. Ti faccio un esempio: mio marito è un medico di medicina cinese tradizionale, un agopuntore. In ambulatorio fa ascoltare in sottofondo i miei mantra e si è accorto che le persone si rilassano molto di più mentre ascoltano la mia voce. Lui vede proprio la differenza tra la tensione e il relax, e dice che così per lui è molto più facile. Per tornare alla tua domanda, mi è stata data questa voce e non so bene come me la sono meritata (sorride): è il mio modo speciale di far sentire le persone legate alla loro vera natura, il seme di Buddha. Quando siamo in pace con noi stessi siamo più concentrati. Dobbiamo trovare la nostra voce interiore, la natura di tutti noi è fatta di amore e compassione".