«Non so cosa diremo un giorno io e mio marito ai nostri figli. Non so bene quali parti della storia selezionare e tagliare, e quali rimescoleremo […]. I bambini chiederanno però, perché è quel che fanno i bambini». Questo è un brevissimo estratto dalla parte iniziale di Archivio dei bambini perduti (La nuova frontiera, traduzione di Tommaso Pincio), l'ultimo libro di Valeria Luiselli, scrittrice messicana classe 1983, ospite del Festivaletteratura di Mantova, dove ha partecipato a un incontro con Michela Murgia. In quella frase è rappresentata una delle essenze di questo libro: ovvero il concetto di responsabilità. Una responsabilità che ha inizio nel linguaggio: «Le cose - dice Michela Murgia - non sono come le vedi, le cose sono come le chiami. E il modo in cui le chiami determina la relazione con quelle cose». La Luiselli decide allora di introdurre il tema della nominazione delle cose e delle persone partendo dal lato familiare, per poi applicarlo al dentro e al fuori delle nazioni, degli stati, al concetto di confine che cambia il nome alle persone, «perché finché sei da una parte sei una cosa, poi lo attraversi e ne sei un'altra: sei un immigrato, sei un clandestino, sei un illegale. Quanti nomi si acquisiscono attraversando il confine. Come dobbiamo chiamare, se non con l'aggettivo "nostro", le persone che si spostano?». La Luiselli risponde spiegando quanto la violenza oggi nasca e venga perpetrata nel linguaggio: «La lingua non è innocua. A mio avviso ci sono due forme di violenza: la prima è l'uso dell'eufemismo, che è una prassi delle istituzioni e della terminologia del burocratese, l'altra invece è la disumanizzazione, ad esempio quando si dice "sei illegale". Ma come si fa a essere illegali? Al massimo si può fare qualcosa di illegale». Qual è, in questo senso, il ruolo della scrittura e degli scrittori, o dei lettori? «Il linguaggio è il filo che ci lega e ci tiene uniti. Facciamocene custodi attivi, e reagiamo quando viene utilizzato a questi fini».

Archivio dei bambini perduti è un libro sulle migrazioni. Un romanzo on the road non convenzionale, prodotto da una scrittrice che ha visto più mondi e li ha elaborati, decidendo di raccontarli con una voce potente e uno sguardo su scorci di terra a cui mancava un pezzo. Un pezzo che aggiunge una nuova visuale ad altre grandi narrazioni di frontiera, a un concetto di confine e orizzonti sterminati che, da Steinbeck a Francisco Cantù, ha saputo non solo costruire una narrazione su questo tema, ma anche una vera e propria letteratura epica sul limite: «In Arizona e in New Mexico - spiega Luiselli - ci sono luoghi in cui si realizzano rappresentazioni storiche in costume in cui vengono rievocati personaggi come Billy the Kid e Doc Holliday. Il mito della frontiera, ovvero lo spirito che ha indotto a concepire lo spazio al di là della frontiera come un territorio barbaro da conquistare e di cui impossessarsi da parte di un territorio civilizzato, si riporta in scena anche quattro volte al giorno, e tutt'oggi quello spazio, quel territorio, è così. La differenza è che attraverso questi lunghi tratti di deserto non si vedono i cowboy che inseguono i pellerossa, ma droni che sorvegliano, telecamere periscopiche a circuito chiuso 24/7 e posti di vedetta.

Gli americani hanno trasformato gli spazi di frontiera in spazi di reddito, perché incarcerare immig

, perché incarcerare immigrati è una pratica sempre più comune e redditizia».Confine e frontiera, spiega Michela Murgia, sono concetti spesso sovrapposti, ma etimologicamente diversi. L'uno indica il limitare tra due territori geograficamente apparentati e noti, l'altro indica invece una cosa più netta, una demarcazione tra noto e ignoto. Non a caso il libro parla anche dei modi diversi di approcciare due Americhe tanto lontane, e del desiderio di avvicinarsi, ma bisogna fare i conti anche con la politica: «Durante l'amministrazione Obama, i bambini detenuti in spazi di frontiera erano un paio di migliaia. Sotto l'amministrazione Trump hanno superato quota 14mila, e questo numero crescerà ancora. Sono bambini che non hanno fatto nulla di irregolare, hanno solo provato a superare la frontiera per chiedere asilo».

I personaggi della storia di Valeria Luiselli sono una famiglia, un uomo, una donna e i loro due figli avuti da precedenti relazioni. Entrambi i genitori sono documentaristi e fanno ricerca sui paesaggi sonori, ovvero l'insieme dei rumori di un luogo che lo rendono riconoscibile anche a occhi chiusi. Gli scopi del viaggio però sono diversi: l'uomo vuole visitare il luogo dove l'ultima banda di guerrieri apache si è arresa all'esercito americano, mentre la donna vuole vedere con i propri occhi l'emergenza migratoria di cui parlano i notiziari. Per farlo Valeria Luiselli utilizza la forma romanzo e lo fa con più registri, mischiando la sua esperienza diretta di mediazione (è stata volontaria al Tribunale Federale per l'immigrazione di New York, ndr) e provando a rendere giustizia alle storie: «Quando ho intervistato il direttore di uno di quei luoghi dove inscenano storie del far west americano, ho scoperto che era anche il direttore di un gruppo di persone che indaga le attività paranormali in Arizona. Vanno nel deserto con delle telecamere a infrarossi e altri dispositivi, che poi ho scoperto essere gli stessi usati dalla polizia di frontiera per snidare aspiranti migranti. Cioè vengono utilizzati gli stessi dispositivi per scovare gli alieni e dare la caccia ai migranti. Allora mi sono detta: cosa può fare la narrativa che altri generi non possono fare? Una delle domande più difficili che mi fanno da anni, avendo lavorato a contatto con le persone, specialmente bambini che chiedevano asilo in America, è la seguente: qual è il modo migliore, adeguato, intelligente, per raccontare questa vicenda? I mass media non rendono giustizia alle storie, perché li raccontano solo in due modi: come catastrofi nazionali, dimenticando che sono storie di persone, oppure vittimizzando radicalmente».

Cosa si può fare, allora? «Possiamo dare loro un tessuto narrativo, e la prosa è il solo spazio per restituire il fenomeno globale dei bambini che migrano. È quello che ho cercato da questo libro, perché questa non è una storia di vittime, ma di piccoli con un grande coraggio. È una storia epica», ed è attraverso questa epica che si può dare loro un nuovo immaginario, raccontando tutte queste storie come parte della nostra.