“Ne ho vista tanta di cocaina nella mia carriera. Me l’hanno offerta, me l’hanno data. Ho stretto una mano e mi sono ritrovato con un pacchettino di stagnola. Mi hanno chiesto di spolverarla su un soufflé mischiandola con lo zucchero a velo. La coca è ovunque, ed è fuori controllo”. È la voce di Gordon Ramsay in Cocaina al ristorante a dare il via al documentario che indaga sul consumo di droghe stimolanti da parte di chi lavora nelle cucine. Inservienti, lavapiatti, sous chef, camerieri. Clienti, pure, che a volte sono legati proprio dalla impalpabile perlescenza. Che sui piani immacolati delle cucine di ristoranti di altissimo livello si tirino le righe per sopportare stress e pressione non è una novità assoluta: lo aveva raccontato già l’indimenticabile Anthony Bourdain in Kitchen Confidential, uno di quei libri di cucina da leggere nella vita. L’ex bad boy newyorkese scomparso nel 2018 aveva scoperchiato a inizio millennio il segreto di Pulcinella della ristorazione. Senza fare nomi a parte il suo, aveva messo nell’occhio del ciclone quello che molti pensavano fosse l'anima da rockstar del mestiere di chef.

Girato nel 2017, anno in cui lo chef inglese celebre per le sue sfuriate colossali in Hell’s Kitchen aveva dichiarato apertamente che la cocaina nei ristoranti era una questione ancora aperta, con il doc Gordon Ramsay riapre la questione. 86 minuti di girato (disponibili anche in italiano su Dplay) per far tornare l’attenzione su un problema ancora oggi irrisolto. Lo storytelling delle fiction come Gomorra ha tracciato la mappa dei traffici internazionali verso il porto di Napoli mostrando che la coca può essere mascherata da statua della madonna, o in Narcos ha narrato i retroscena del trafficante più famoso del mondo, infuocando la curiosità attorno al mito di Pablo Escobar. Nel tentativo di smontarla a colpi di fiction, la tv ha contribuito a diffondere capillarmente la fama della coca. Certo, non è colpa sua, sarebbe troppo facile additarla come responsabile: come coi videogiochi che istigano alla violenza, è la semplificazione che distorce la natura del problema. Il mercato è gigantesco, il passaparola pressoché esponenzialmente infinito, alimentato da spacciatori e interessi monetari inimmaginabili. Non è la tv il mezzo di diffusione della coca, non lo è stato mai.

La cocaina è una che punta ad ammazzare la percezione della fatica e farti sentire un dio irresistibile. E il fatto che sia dannatamente accessibile amplifica in molti il suo desiderio. Nel documentario di Gordon Ramsay, perlomeno, questa parte viene messa in secondo piano. Lo chef racconta di non aver mai avuto inclinazioni perché il fratello minore Ronnie Ramsay, prima cocainomane e dopo eroinomane, “si è fottuto con le sue stesse mani”, tanto da essere costretto a farsi pure prima del funerale del padre altrimenti non si sarebbe retto in piedi. E il ricordo di David Dempsey, capocuoco di uno dei ristoranti di Gordon Ramsay a Londra, morto nel 2003 cadendo da una finestra dal terzo piano dopo aver assunto cocaina, è ancora vivido per lo chef inglese (che ha assunto il figlio in brigata). Questi sprazzi personali del racconto di Gordon Ramsay rompono l’approccio da data analyst per restituire, almeno in parte, la dimensione umana del tema. Il viaggio in Colombia alla scoperta della base della produzione è impresso nello shock di Gordon Ramsay, che con puro spirito british riesce ad alleggerire un filino le immagini della raffinazione della cocaina. A volte la discussione si piazza su basi decisamente semplicistiche, perché per cercare di smitizzare la cocaina si arriva a farne una morale spicciola che mette a posto la coscienza, ma lascia i problemi dove sono. Parlando dei consumatori abituali, Gordon Ramsay pecca di banalizzazione della complessità. Per quanto riguarda le cucine, ad esempio, sembra voler bypassare completamente la questione delle condizioni psicologiche dei dipendenti, manca l’organicità di un’analisi sottile della salute mentale dei dipendenti, il fare gruppo sugli equilibri sani che regolano una brigata. La faccia di Gordon Ramsay che fa i test alle pareti dei bagni dei dipendenti nei suoi ristoranti, trovando ovunque tracce di coca, è quella di un uomo che non si aspettava una tale casistica proprio dentro casa sua. “Immaginavo che ci fosse della droga, ma non così tanta” esclama di fronte ai tamponi colorati di blu. Quello che Gordon Ramsay e il suo documentario vogliono dimostrare, riuscendoci in parte, è la preoccupante diffusione della cocaina. Che si ritorni a parlare a cicli continui di cocaina nei ristoranti è un bene, certamente. Ma forse ci vorrebbe un po' più di coraggio, senza ostracismi, con chi la consuma.