È seduta su un divano nella hall dell'albergo. Mi avvicino. Mi accomodo su una poltrona alla sua destra. Alla sua sinistra c'è l'interprete, alla quale prima di iniziare l'intervista chiede con un filo di voce se può far portare dallo staff dell'hotel qualcosa per l'influenza. Si asciuga il naso, la notte è stata fredda. Sono piccole cose, gesti semplici, comuni e inaspettati da un Premio Nobel per la Letteratura (nel 2015), eppure reali, esistenti, e soprattutto rappresentativi di quello che lei ha saputo fare con la scrittura, e con le persone e personaggi delle sue storie del quotidiano, affrescate su uno sfondo più grande. Lei è Svetlana Aleksievic, nata in Ucraina nel 1948 da padre bielorusso e madre ucraina. Giornalista e scrittrice, nota soprattutto come cronista dei principali eventi dell’Unione Sovietica nella seconda metà del XX secolo, e ospite a Pordenonelegge, dove le è stato assegnato il Premio Crédit Agricole FriulAdria "La storia in un romanzo 2019” «per aver raccontato, con partecipazione e sincerità, il dramma corale di vittime e carnefici della grande utopia comunista, con una particolare attenzione all’epopea delle donne. Aleksievic - recita il comunicato - ci ha fornito uno spaccato della tramontata civiltà sovietica, resa viva dal potente dono della scrittura, che permette all’autrice di rendere vibranti e universali le testimonianze raccolte».

Svetlana Aleksievic, la "donna orecchio", che ha fatto dell'ascolto la sua prima e più grande virtù

Prima donna a ricevere questo riconoscimento, negli anni andato ad autori come Robert Harris, Wole Soyinka, Javier Cercas, Emmanuel Carrère, Umberto Eco, Martin Amis, Ian McEwan, Alessandro Baricco, Art Spiegelman, Abraham Yehoshua e Arturo Peréz Reverte: «Quando in Svezia ho ricevuto il Premio Nobel, mi è stato detto che ero la quattordicesima donna, qui mi dicono che sono la prima. Bene, è importante che noi ci siamo». Esordisce così la scrittrice, durante la cerimonia di consegna del premio, prima di iniziare a raccontare - accompagnata sul palco da Marino Sinibaldi - il suo lavoro sullo sfondo della grande tragedia collettiva legata al crollo dell’Unione Sovietica, raccogliendo le storie di contadini, operai, studenti, intellettuali, nonché dimenticati eroi che non hanno saputo rassegnarsi. Perché la letteratura può cambiare la storia, è sufficiente saper ascoltare, entrare nelle vite degli altri e inseguire le voci, consumare le suole delle scarpe, con attenzione ai sentimenti, raccontando la storia di una terra e un tempo, l'epopea della piccola grande gente, ma anche una narrazione di sentimenti, restituendo l'unicità e la grandiosità che solo queste vite così reali possono dare.

Svetlana Aleksievic, la "donna orecchio", che ha fatto dell'ascolto la sua prima e più grande virtù, ha saputo inventare un dizionario della memoria. Ha raccolto, trascritto, trasmesso e riportato alla luce tanti piccoli destini, in un unico grande destino: «I miei genitori - racconta la scrittrice - vivevano in un piccolo paese di campagna dove tutti si conoscevano. Ci si incontrava e ci si parlava. Da piccola ascoltavo molto i grandi, ero affascinata dai racconti che sentivo per strada. E ricordo che anche quando andavo in Ucraina, da mia nonna che abitava lì, vedevo tutte queste donne con degli occhi belli, bionde, con i vestiti colorati e una vita dura, difficile. Mia nonna mi portava in campi sterminati in cui vedevo queste donne e le sentivo parlare, e credo che questo mi abbia inoculato una specie di gene di ricerca dell'amore per la verità. Una volta laureata, andai a lavorare in un giornale in una piccola cittadina di campagna, e anche lì, tutto quello che sentivo dalla gente, mi faceva venire l'istinto del racconto, ma il giornalismo in Unione Sovietica doveva essere pura propaganda».

Che cos'è, allora, uno scrittore? «Uno scrittore è una persona a cui, molto presto nella vita, si presenta chiara l'indicazione della strada che deve seguire, e io credo che la vita in queste zone di campagna mi abbia aiutata a scegliere. La coscienza della gente semplice non è condizionata dalla letteratura o dal giornalismo, quello che dicono è quello che sentono veramente. Una volta ho visto un film in cui uno scrittore cammina su e giù per la stanza come un pazzo; io non descrivo la mia attività così, io ho seguito il mio cammino». L'ha fatto mettendo ordine nel caos di voci, nell'enorme quantità di materiale raccolto, traendo senso dalle testimonianze delle persone, per creare un nuovo rapporto con il mondo, cogliendo ogni volta da questo un elemento nuovo, uno sguardo diverso: «L'arte esiste nella vita di tutti i giorni, è sparpagliata in goccioline qua e là. Il mio lavoro consiste nel raccogliere le bricioline e sistematizzarle in un mio sguardo sulla vita, così posso dare uno spunto agli altri per guardare la verità in modo diverso. Il primo libro che scrissi rimase tre anni nelle mani dei censori, che mi dissero: “Ti rendi conto di quello che scrivi sulla guerra?

"Se uno lo legge non gli viene voglia di andare a combattere".

Quella l'ho sempre considerata la migliore valutazione della mia opera, la mia migliore recensione».

Svetlana Aleksievic ha sempre avuto coraggio. Il coraggio della verità, intima o collettiva che fosse, mostrandoci sguardi su luoghi che non sapevamo nemmeno potessero appartenerci. Angoli di mondo che sembravano distanti, rendendo lo sguardo su di essi omologato, simile a tanti altri sguardi appena posati, e mai davvero soffermati: «Preghiera per Chernobyl (da cui è stata tratta una miniserie televisiva, ndr), per me, è stato il libro più difficile da scrivere. Quando scrivevo libri sulla guerra, quella era qualcosa di noto, ne erano stati scritti a centinaia prima dei miei. Quando mi accinsi a scrivere di Chernobyl tutti dissero: mai visto, mai sentito, e per me questo significava affrontare un terreno sconosciuto. Ricordo le prime fortissime sensazioni quando mi recai nella zona interdetta. Attorno a me c'era solo morte, ma appariva in forme del tutto inedite. Ero accompagnata da un soldato che si portava dietro un dosimetro per misurare la radioattività, e verificare che il livello non fosse superiore a quello che il corpo umano è in grado di sopportare. Intorno a me vivevo una sensazione di vera e propria catastrofe. Sai che ci sono le radiazioni, ma non le vedi, non le tocchi, non le senti, eppure sai che la tua vita biologica è in pericolo, e al contempo non esistono parole per descrivere queste sensazioni e questa catastrofe. Erano scomparsi i pesci dai fiumi, gli animali non volevano più bere l'acqua, gli uccelli si suicidavano, andando a sbattere con violenza contro i vetri delle macchine; era come se gli animali avessero la capacità di capire cose che noi umani non riuscivamo a capire. Mi ci sono voluti anni per raccogliere questa specie di nuova conoscenza. Uno dei più grossi problemi della nostra civiltà, è che viviamo nella banalità, e non abbiamo la capacità di affrontare cose eccezionali. Ciò che è fuori dalle idee note ci fa paura, ci affatica, ma la letteratura non può permettersi di fare così, deve cogliere le cose nuove, formulare nuove idee, questo è il suo compito. E non è stato per me un lavoro semplice, o comodo, mi sentivo angosciata, provavo molto dolore, ma sapevo che era il mio compito, e non potevo tirarmi indietro».

la nostra civiltà ci regala trent'anni in più da vivere, che ne facciamo?

Il nuovo libro di Svetlana Aleksievic sarà ancora diverso, parlerà di sentimenti: uomini e donne che raccontano le loro idee sull’amore: «Un secondo libro che intendo scrivere, poi, sarà dedicato alla vecchiaia; la nostra civiltà ci regala trent'anni in più da vivere, che ne facciamo? Sono due temi importanti, perché amore e morte sono parte della nostra vita. Siamo fatti per questo, ma quello per cui non siamo fatti è nascere per morire dopo lo scoppio di un reattore a Chernobyl».

Prima di iniziare la nostra intervista, le portano le medicine che ha richiesto. Si soffia il naso, accenna un sorriso e fa un leggero segno di assenso con la testa. Significa che è pronta. Allora cominciamo.

Il Premio che le viene assegnato oggi si chiama La storia in un romanzo. Le viene assegnato “per aver raccontato il dramma corale di vittime e carnefici della Grande Utopia comunista”. Che valore ha, oggi, quel racconto?
Purtroppo, questo mondo che ho descritto, è ben lungi dall'essere storia. È tuttora reale e ha ancora una grande influenza sulle nostre vite attuali. Possiamo avere la macchina nuova posteggiata sotto casa, dei vestiti nuovi, ma le teste non sono cambiate.

Nel suo lavoro c'è una particolare attenzione alle donne. Com'è la situazione delle donne oggi in Russia?
La situazione non è semplice: da un lato la presenza femminile nella politica, nel business, o nelle posizioni di comando, è molto limitata; dall'altro lato, la famiglia e la casa sono soprattutto sulle spalle delle donne. Un famoso filosofo russo usava dire: "La Russia è un paese di donne".

I suoi libri hanno un grande filo conduttore, e sembrano uno legato all’altro, come fossero sempre lo stesso libro: di che libro si tratta?
Ha assolutamente ragione, perché io stessa sto scrivendo il mio quinto libro, e ho la sensazione di star scrivendo sempre la continuazione dello stesso grande libro. Se dovessi dare un titolo a questo grande libro, lo chiamerei: Le voci dell'Utopia, perché c'è stato questo grande esperimento in Russia, della realizzazione dell'utopia, di creare il Paradiso in terra, ed è di questo che mi occupo. Per la Russia è molto importante la tradizione ortodossa, che è la religione che è sempre prevalsa in quel Paese, per cui la vera vita non è su questa terra, ma sarà nell'aldilà. La felicità, il Paradiso, ci aspettano nell'aldilà, c'è questa cultura dell'attesa del miracolo, e al contempo di un fanatismo religioso, e i segni di questo fanatismo li vediamo tutt'ora.

Parlando di fanatismo, oggi ci sono altri due grossi “ismi” cui molti Paesi hanno deciso di affidarsi: sono i populismi e i sovranismi, come si spiega questo fenomeno?
Riguardo al mondo russo, le forme di sovranismo e populismo sono i segni che le idee comuniste non sono scomparse, ma esistono ancora. Questa aspirazione a una certa uguaglianza, a un senso di giustizia, che si manifestano in quelle forme, sono un segno del comunismo che continua a vivere. Questi fenomeni portano anche a grandi divisioni nella società, e possono purtroppo portare a guerre civili. Negli anni Novanta, noi democratici eravamo degli ingenui romantici. Ritenevamo che il comunismo fosse morto, e aveva in realtà ricevuto un colpo mortale, ma ora vediamo che dappertutto comincia a rinascere. Ad esempio: non c'è nessun decreto del Cremlino che ordini di aprire musei dedicati a Stalin, o montare suoi busti, è proprio un qualcosa che viene fuori in modo spontaneo dalla popolazione. Questo che cosa significa? Significa semplicemente che il comunismo, che sembrava distrutto, dalle briciole invece rinasce.

Che cos'è per lei la libertà?
Una cosa è la libertà come fenomeno di una coscienza di massa, altra cosa è quella individuale, cioè come la intendo io. In questo senso io la interpreto come una possibilità di libertà interiore, di guardare a me stessa senza paura. Come fenomeno di massa, invece, che è quello che analizzo e studio nei miei libri, nel mio Paese, in Russia, la libertà non è come nel resto d'Europa, dove la democrazia esiste da un centinaio d'anni, e quindi esiste come un sistema costruito e solido, che funziona in un certo modo; da noi significa accaparrarsi un permesso Schengen, comprare una macchina, passare le vacanze in mari esotici, e poi magari in casa si erge un monumento a Stalin.

Quanto è libera oggi l'opinione pubblica in Russia?
Non si può assolutamente parlate di libertà, pensi solo che nelle recenti dimostrazioni, dei giovani possono essere imprigionati dai tre ai cinque anni. Se un blogger esprime un'idea personale sull'Ucraina in conflitto con la linea del potere, può essere passabile di causa penale. Di quali libertà si può parlare in queste condizioni? Infatti ora nelle ambasciate straniere in Russia, c’è un elenco di persone che chiedono di abbandonare il Paese ed emigrare. E chi se ne va, sono soprattutto le persone intelligenti, le persone che hanno una mentalità indipendente.