Fino a oggi, se a molte, moltissime, troppe persone chiedevi chi fosse Olga Tokarczuk, ti rispondevano con una risata o con uno sguardo, come a dire - chi è questa? – mentre quelle meno coraggiose, tra l’infastidito e l’imbarazzato, distoglievano lo sguardo, puntandolo verso il basso. Lei, che nel 2018 aveva già vinto il Man Booker Prize con il romanzo I vagabondi, da noi pubblicato dalla Bompiani, e scritto libri e poesie pubblicate in oltre trenta Paesi, non era conosciuta più di tanto. Oggi, grazie al Nobel per la Letteratura che ha vinto per lo scorso anno (perché non era stato assegnato per via degli scandali sessuali e dei problemi interni che avevano coinvolto l’accademia svedese che assegna il premio) assieme a Peter Handke (lui, per il 2019), avrà la sua rivalsa anche da noi, in molti la conosceranno, ma, soprattutto, si spera che saranno tanti a leggere la sua opera.

La Tokarczuk, 57 anni di Varsavia, è stata scelta “per la sua immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta il superamento dei confini come una forma di vita”. Il suo primo libro è la raccolta di poesie Miasta w lustrach uscita nel 1989; il suo primo romanzo, Podróż ludzi księgi, uscì invece nel 1993. In Italia venne pubblicata per la prima volta nel 1999 dalla casa editrice da E/O con il libro Dio, il tempo, gli uomini e gli angeli, poi ripubblicato da Nottetempo nel 2013 con il titolo Nella quiete del tempo. Gli altri suoi libri pubblicati in Italia sono Casa di giorno, casa di notte (Fahrenheit 451, 2007), Che Guevara e altri racconti (Forum, 2006) e Guida il tuo carro sulle ossa dei morti (Nottetempo2012, in ristampa per Bompiani), da cui è stato tratto il film Pokot (2017) di Agnieszka Holland.

“I barbari non viaggiano, loro si spostano soltanto con uno scopo o compiono razzie”

Mesi fa, a Roma, presentò I vagabondi, la storia di una narratrice che all’inizio del romanzo confida che fin da piccola, quando osservava lo scorrere dell’Oder, desiderava una sola cosa: essere una barca su quel fiume, “essere eterno movimento”. Avvolta da uno scialle a fiori, ce la ricordiamo timida, ma curiosa, soprattutto nel sentirci parlare l’italiano con la sua interprete, interessata ad ascoltare, a scrutare e poi, dopo averci pensato, a risponderci. Nel libro è quella donna a trasformarsi in una sorta di “spirito-guida”, come ce la definì, che ci conduce attraverso esistenze fluide di uomini e di donne fuori dell’ordinario”. Pagine in cui l’autrice, membro del partito dei Verdi polacco, è riuscita a mescolare realtà e finzione raccontandoci, tra le altre, la storia della sorella di Fryderyk Chopin che portò il cuore del musicista da Parigi a Varsavia, quella dell’anatomista olandese scopritore del tendine di Achille assieme a quella di un bambino nigeriano che fu portato alla corte imperiale austriaca come mascotte e dopo la morte impagliato per essere esposto. Il tema comune di tutte le storie è la vita nomade. “Fluidità. Mobilità, illusione: questo vuol dire essere civilizzati”, scriveva e ci confermava di persona. “I barbari non viaggiano, loro si spostano soltanto con uno scopo o compiono razzie”.

“I vagabondi sono stati loro, aggiungeva, e siamo noi: siamo un’umanità in viaggio, che si sposta e che fugge”. Tutti noi fuggiamo da qualcosa o da qualcuno, ma per la Tokarczuk la cosa da cui si fugge “è la fragilità umana”, che poi è il nostro essere transeunti e mortali, il nostro essere soggetti al decadimento. “È da questo che fuggono i miei personaggi. La metafora che è alla base del libro è l’opposizione tra il continuo movimento delle persone e la fragilità del corpo umano e il suo essere soggetto al passare del tempo, come il contenitore più fragile nel quale viene contenuta la volontà di spostamento”. I cambiamenti, in ogni caso e soprattutto per una come lei che è sempre in viaggio, quindi, sempre in movimento, “sono meglio della stabilità, anzi, sono essi stessi a darla”. “Sono necessari come lo è tendere verso un qualcosa che è migliore”. Quando qualcosa poi non va, può entrare in gioco la letteratura – “un sistema molto raffinato e profondo per creare comunicazione tra le persone”- e soprattutto la scrittura – “che è come la terapia, perché allarga, aumenta e approfondisce la nostra coscienza. Vi entriamo in punta di piedi senza sapere delle cose di cui poi veniamo a conoscenza. Solo così diveniamo più profondi ed intensi”.