A 29 anni, mentre era allo stadio a vedere una partita di baseball, osservando una palla finire nel guantone di un giocatore Murakami Haruki ebbe un'illuminazione: sarà scrittore. Che cosa, nella traiettoria di quella banale sfera, abbia innescato in lui il fuoco delle storie resta misterioso, pur aderendo alla perfezione alla figura di uno dei personaggi più ordinari ed enigmatici del panorama letterario contemporaneo.

Murakami Haruki, 70 anni, scrittore e runner, di Kyoto, non si fa praticamente mai vedere in pubblico. Non ama che la gente lo fotografi. Preferisce non sottoporsi a estenuanti sessioni di firmacopie. Non tornava, ufficialmente, in Italia da una ventina d'anni: per questo, quando il premio Lattes Grinzane promosso dalla Fondazione Bottari Lattes ha annunciato che il vincitore 2019 della sezione Quercia sarebbe stato presente alla premiazione ad Alba l'11 ottobre, i biglietti si sono polverizzati in un baleno, neanche fosse un concerto di Beyoncé.

«Più sono serio, più divento balzano e contorto», ha detto Murakami in un'intervista, ed è proprio così: più il giapponese irreggimentava se stesso, e il proprio lavoro quotidiano, in un'autodisciplina ferrea - che, nel tempo, ha assunto le spietate, a volte maniacali, regole del maratoneta (descritte sia nell'Arte di correre che nel Mestiere dello scrittore) - più la sua produzione letteraria esplodeva in un fantasmagorico universo abitato da ragazze con poteri surreali, vendicatrici di donne con minigonne e tacchi a spillo, detective riluttanti, mondi con due lune, pecore con macchie a forma di stelle e poeti senza un braccio. Più la superficie assomigliava all'olio, più giù nei fondali si scatenavano correnti fantastiche e inquietanti.

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Bruno MURIALDO
Haruki Murakami - Premio Lattes Grinzane 2019 © Fondazione Bottari Lattes – foto Murialdo

Tra i suoi romanzi più famosi ci sono Norwegian Wood. Tokyo Blues, L'uccello che girava le viti del mondo, La ragazza dello Sputnik, Kafka sulla spiaggia. Quello che i lettori amano di più nelle sue opere oniriche è il fatto che persone dalle vite fondamentalmente ordinarie si trovino a un certo punto sbalzate in situazioni sospese tra la realtà e l'irrealtà, magia e incubo. Il che, in fondo, non è che un modo di raccontare tutto lo smarrimento dell'essere umano contemporaneo di fronte agli eventi del mondo che, invece di darsi alla fuga, prova a difendersi proiettandosi dentro se stesso, alla ricerca di quello che si cela nel profondo della propria anima. Dove, nella maggior parte dei casi, fa piuttosto buio.

Che Murakami sia uno degli autori più pop e allo stesso più inafferrabili è stato anche sancito da un bel documentario, uscito nel 2017, intitolato Dreaming Murakami: lo ha girato il regista Nitesh Anjaan e ha come protagonista la sua traduttrice danese, Matte Holm, che si dà appuntamento in giro per il mondo con suoi omologhi di altre nazioni per discutere di alcune scelte di traduzione, in un difficile tentativo di avvicinarsi a quello che è l'enigmatico pensiero dello scrittore. Viene anche spiegato il significato dei cosiddetti «Murakami moment», momenti normalissimi dove a un certo punto accade qualcosa di straordinario (un esempio: durante una conversazione normalissima si vede passare una lumaca. Sotto questo punto di vista, tutte le opere di Murakami sono un unico e gigantesco «Murakami moment»). Nel film, lui non compare mai di persona. Solo alla fine, prima di andare in nero, lo si vede entrare in un auditorium gremito di gente: poi l'immagine si sfuoca, lui è un ectoplasma.

leggere la sua lectio magistralis, bere vino e fare jogging tra i filari di viti appena vendemmiate

Al Alba, Murakami Haruki è venuto per fare sostanzialmente tre cose: leggere la sua lectio magistralis, bere vino e fare jogging tra i filari di viti appena vendemmiate. Tra noi giornalisti, abbiamo scherzato a lungo sulla questione dell'ectoplasma e del replicante poco prima di entrare al Teatro Sociale di Alba, che ha una sorprendente doppia struttura composta da una sala storica ottocentesca a ferro di cavallo posta di fronte a una più moderna separate dal palcoscenico. Chi veniva ammesso alla cerimonia era già stato redarguito più e più volte: no foto, no audio, no video. Vietato, insomma, disturbare un evento per sua natura unico e irripetibile. E per tutti coloro che non hanno potuto partecipare, benché non esistano documenti ufficiali che possano provarne la veridicità, ecco la cronaca sintetica dell'incontro (uno dei più surreali ai quali chi scrive sia mai capitato di assistere):

ore 17.58 - La platea della sala moderna è quasi al completo, i posti sono nominali, le personalità più importanti davanti. I giornalisti in quarta fila. In seconda, una signora orientale con un'elegante giacca di raso nero e un caschetto perfetto e grigio potrebbe essere l'attrice Yoko Takahashi, dal 1971 moglie di Murakami (la loro storia d'amore da sola vale un romanzo: i genitori di lui non volevano che la sposasse, così appena dopo il matrimonio andarono ad abitare dal padre di lei, eccetera eccetera). Potrebbe. Una voce ripete: niente foto, niente video. I rumori in sala iniziano ad assorbirsi, l'attesa si solidifica. Le quinte di velluto verde si muovono.

18.00 – Luci basse, si apre il sipario: come in uno specchio deformante, al di là del palcoscenico appare il teatro antico. Altro pubblico che attende. Un sagoma si muove.

18.01 – È lo scrittore Marcello Fois, il presentatore della serata. Fa i ringraziamenti del caso, tra cui a Caterina Bottari Lattes che ricorda il marito Mario Lattes, editore, collezionista e artista morto nel 2001.

18.26 – Fois chiama sul palco i traduttori di Murakami, Antonietta Pastore, eterea in nero plissé e foulard color pesca, e Giorgio Amitrano, elegante in un impeccabile grigio scuro. Lei: «I giapponesi esprimono le loro emozioni in modo molto contenuto. Per trasmetterle agli italiani, mi vedo costretta ad adattarle, altrimenti nessuno le capirebbe. Anche a costo di inventarmi qualche cosa». L'essenza del tradurre è tutta qui, ed è un'arte.

18.36 – È il momento: lo scrittore «straordinariamente riservato» «per la prima volta in Italia per ritirare un premio», entra in scena. Bassino, asciutto, giacca nera sportiva con una spilletta verde sul bavero sinistro, jeans, sneakers beige, camicia bianca, niente cravatta, cintura marrone. Un ometto ordinario. Anche il vero mago di Oz era in realtà un comune mortale. Chissà che cosa ci aspettavamo. Per chi fosse rimasto agli scatti che lo ritraevano in alcuni suoi vecchi libri, ha i capelli più grigi e più radi, ma 70 anni non li dimostra proprio. In italiano, dice di essere contento di essere «qui, nella bellissima città di Alba», poi un po' imbarazzato per la doppia struttura del teatro, va al leggio e inizia la sua lectio. In giapponese. C'è una traduzione simultanea in italiano.

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18.48 – Mani sui fianchi, arriva la parte dei «cassetti»: Murakami dice, e pare di vederli apparire sul palco come in uno dei suoi romanzi, che il suo modo di lavorare consiste nello scrivere in modo spontaneo alcune scene che gli vengono alla mente, poi nel prendere quelle righe stampate e riporle in alcuni cassetti. «Nel mio studio ci sono diversi cassetti nei quali sonnecchiano provvisoriamente molti di questi brani “difficilmente utilizzabili”… Poi un bel giorno, all'improvviso, come se col passare del tempo qualcosa fosse fermentato, o come fa il vino quando invecchia, uno di quei fogli comincia a prendere vita nel mio studio». Si tratta, aggiunge, come di una fermentazione in due tempi (come la birra e il panettone, per capirci): da paragrafo a racconto, da racconto a romanzo. Sarebbe bellissimo avere una fotografia di tutti quei cassetti-uteri che racchiudono embrioni di storie murakamesche in attesa di venire al mondo.

18.53 – Mima un tornado all'interno di un cassetto: è una metafora del processo creativo e della profondità dell'inconscio.

18.57 – Murakami beve un sorso d'acqua.

18.57 – Insiste su due concetti: la libertà dello scrittore e la spontaneità della scrittura. Secondo lui, solo così le storie possono arrivare al cuore dei lettori. Lui non progetta mai a tavolino nessuna delle sue trame. Baluginano, fermentano, esistono. Mentre parla, la sua faccia resta impassibile, però le mani si muovono.

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19.01 – Il paragone, ora, è con la musica (il suo ultimo libro tradotto in italiano per Einaudi, che è l'editore di tutta la sua opera, è Assolutamente musica, un dialogo con uno dei direttori d'orchestra più grandi del mondo, Ozawa Seiji, sulla loro passione comune). Se ci si tappa le orecchie, sparito il giapponese, sparito l'oversound italiano, Murakami senza audio gesticola piano, come farebbe un direttore d'orchestra che picchietta l'aria con un dito e fa tuonare sinfonie. Cambia foglio come girare uno spartito.

19.02 – La lectio è alla fine, un finale in salita, sublime. Murakami paragona lo scrittore all'uomo della preistoria che, la notte, per riparasi da un mondo che sprofonda nelle tenebre dove vagano belve con zanne e artigli acuminati, si rifugia all'interno di una caverna e accende un fuoco. Dopo un po', quest'uomo inizia a raccontare una storia e gli altri lo stanno a sentire perché è una cosa che gli riesce piuttosto bene. A un certo punto, quest'uomo si ferma. «E poi cosa succede?», gli chiedono gli altri. «Il seguito ve lo racconto domani», risponderà, come un George R.R. Martin qualunque. «Noi romanzieri siamo i discendenti di quei narratori delle caverne», conclude Murakami, proiettando di nuovo noi pubblico qui ad Alba, «a illuminare gli angoli oscuri di tante caverne in tanti posti del mondo, e se potessi continuare a farlo anche d'ora innanzi, non ci potrebbe essere per me gioia più grande».

19.12 – Applausi applausi applausi. Lui aggiunge qualche a parola a braccio, parentesi non prevista dal suo (totalmente autoimposto) cerimoniale. Parla in inglese, questa volta: «Alla fine degli anni '80, mia moglie e io abbiamo vissuto per qualche tempo a Roma. Qui ho scritto due romanzi, Norwegian Wood e Dance dance dance. Sono stati anni prolifici, di cui ho dei bei ricordi soprattutto legati al vino e alla pasta (è qui che i suoi occhi si illuminano di vera goduria per la prima volta nella serata, ndr). Sono molto onorato di ricevere questo prestigioso premio. Grazie». Standing ovation.