Una donna, ovunque nel mondo, che decida di prendere la laurea è a rischio di stupro. Difficile dirlo senza scatenare le proteste dei Not All Man, la frangia di misogini (un po’ piagnona) secondo cui è in corso un complotto femminista per far passare tutti gli uomini come dei mostri. È ovvio che esistano uomini che mai commetterebbero uno stupro. Il problema è che quelli che, con un minimo di certezza di impunità, lo commetterebbero tranquillamente è troppo alta. Le cifre parlano chiaro: negli atenei di lingua anglosassone circa il 68% delle studentesse subisce degli abusi di natura sessuale. Ad alzare la media sono soprattutto i campus con dormitori dove la media, tra chi subisce uno stupro o un tentativo di stupro, arriva a una studentessa su cinque.

Non è quindi una questione culturalmente lontana da noi, come il caso della studentessa sudafricana alla Rhodes University che, nel 2018, si è tolta la vita dopo avere visto il suo stupratore condannato a una mera sospensione disciplinare, come se avesse tirato un sasso a una finestra dell'edifico. Nei prestigiosi college americani il fenomeno è rimasto nascosto sotto il tappeto per decenni, per non infangarne la reputazione. Solo di recente, grazie all’aumento di consapevolezza delle studentesse, le acque si sono intorbidite di denunce che però a volte, anche qui hanno esiti shock. Come quando nel 2015 il rampollo Brock Allen Turner della Stanford University è stato condannato a soli 6 mesi di detenzione per aver abusato di una compagna in stato di incoscienza. Studente modello e atleta "perdonato" perché lo stupro era durato "solo 20 minuti” e perché il padre aveva scritto un’accorata lettera in sua difesa chiedendo di non rovinargli la vita, anche se ha rovinato quella di un altro essere umano. Con la presidenza di Barack Obama, per suo specifico volere, sono state avviate 51 indagini approfondite nelle università per chiarire eventuali coperture di abusi negli atenei americani. Ora il fenomeno si sta allargando, o meglio sta venendo allo scoperto anche nel Regno Unito, come racconta Polly Dumbar su Marie Claire Uk. E poi, dove altro ancora?

Polly Dumbar ha realizzato un’indagine sulla “allarmante diffusione della cultura dello stupro universitario” nel Regno Unito. La introduce con la storia di una ragazza che ha perso i sensi mentre beveva alcolici in compagnia e si è risvegliata nuda nel letto di uno sconosciuto, nel dormitorio maschile, incapace di muoversi mentre abusava di lei, presumendo di essere stata drogata. La mattina dopo il ragazzo si comportava come se nulla fosse accaduto. Lei si è ritirata in silenzio nella sua stanza, sentendosi sporca e violata, ma rinunciando alla denuncia per paura di sentirsi dire “così impari a bere troppo”. Gli abusi universitari provano che lo stupro non è quel fenomeno atroce che per, chi coltiva la superficialità, sembra appartenere solo a determinate situazioni di degrado. Inutile coniare la definizione “stupro di guerra”, se poi è diffuso anche in tempo di pace. Gli esperti spiegano che non esiste il profilo criminale dello stupratore perché fra coloro che lo hanno commesso c’è sempre stato di tutto, dallo spacciatore all’acclamato regista, dal pugile al calciatore, dal militare allo stimato professionista. E lo studente.

Ma veniamo al Regno Unito. È successo che nel 2018 la 22enne Hannah Stubbs si è suicidata sei mesi dopo un’aggressione sessuale mai accertata ufficialmente alla Keele University di Newcastle, in Gran Bretagna. La furia del nonno si è scatenata contro l'istituzione per non aver praticamente fatto nulla, né dare supporto psicologico alla ragazza, né sospendere il presunto aggressore in attesa di accertamenti. Le ragazze dei campus ormai hanno messo in conto, se non lo stupro, almeno le molestie molto pesanti comprese le umiliazioni sessuali sui social media. Gli esperti indicano come causa principale l’inesistenza di un’educazione sessuale concreta, che porta i ragazzi a prendere l’hard core o lo scene misogine della fiction come se fossero la vita reale. Sempre nel Regno Unito, nella squadra di rugby della Durham University, era diventata un’abitudine il gioco It’s not rape if, “non è stupro se”, una gara all’immaginare situazioni in cui attribuire alla ragazza o agli eventi la responsabilità del crimine (perché di crimine, si tratta). E pensare che il rugby viene chiamato “uno sport bestiale giocato da gentiluomini”, per la tradizionale integrità morale dei suoi giocatori. A esacerbare il problema ce n’è un altro parallelo: l’esagerato consumo di alcolici fra giovanissimi, soprattutto fra le matricole che non si tirano indietro nella speranza di socializzare velocemente, di non essere giudicati noiosi. In questo, il marketing degli alcolici non è d’aiuto, tirando fuori drink sempre meno costosi e gli happy hour a metà prezzo.

Nel suo articolo shock, Polly Dumbar racconta anche le testimonianze di chi, della cultura dello stupro nelle università inglesi ha subito gli effetti collaterali, come Rowena Lewis, una 26enne che prima di conseguire la Laurea in Cinematografia ha assistito a gare sessiste fra i maschi del college che seducevano le ragazze, fingendosene innamorati per convincerle a mostrarsi a seno nudo su Snapchat, solo per ottenere punti. Personaggio di riferimento degli studenti: Dapper Laughs, un influencer che ha raggiunto la notorietà con Facebook e l’ormai estinto Vine, e che sullo stupro ci fa delle gag con giochi di parole intraducibili sulle ragazze, che in realtà desidererebbero tanto essere imbavagliate e abusate. Il problema è che i suoi fan ci credono. Secondo una studentessa di Oxford (no, non si salva nemmeno Oxford), ogni gioco, ogni occasione di promiscuità finisce in una umiliazione sessuale delle ragazze.

E il sommerso è tanto. Le esperienze altrui, che finiscono nell’impunità degli abusanti, e la condanna sociale della vittima, sono troppe per andare direttamente a denunciare. L’articolo racconta, ancora, la storia di una studentessa in Scienze Politiche particolarmente sfortunata, Sarah Redrup, che una sera in cui non aveva neanche bevuto molto, ha perso i sensi cadendo dalle scale e ritrovandosi anche lei a letto con lo sconosciuto che l’aveva aiutata a rialzarsi. Ha rinunciato alla denuncia perché era la seconda volta che le succedeva. La prima volta, denunciare l’abuso non era servito a nulla anzi, era stata una brutta esperienza. La polizia l’aveva presa poco sul serio e non le aveva nemmeno fornito, come sarebbe giusto, indirizzi a cui rivolgersi per un supporto psicologico. Sarah non ha avuto nemmeno il coraggio di chiedere al ragazzo se avesse usato il preservativo o no, mentre lei era incosciente. Da quando si è scoperchiato il vaso di Pandora, il governo britannico ha invitato caldamente gli istituti universitari a non condurre indagini interne ma a rivolgersi alle forze dell’ordine. Ma le vittime si lamentano che questo ha giustificato gli atenei a lasciarle ancora più da sole. Risultato: solo il 15% delle vittime di stupro nelle università arriva a sporgere denuncia. Gruppi come NUS e End Violence Against Women sono dovuti intervenire in loro vece, coniando anche l’hashtag #StandByMe.

Questo ha incoraggiato le studentesse britanniche a fondare i propri gruppi di sostegno universitari per stare vicine alle compagne abusate, come Survivors’ Network a Bristol, di cui fa parte anche Sarah Redrup, o It Happens Here, alla Oxford University. Sono spazi in cui le vittime dello stupro trovano conforto, appoggio e persone disposte ad ascoltarle e a credergli. Senza il rischio di trovarci i loro violentatori. Perché il rovescio più scabroso della medaglia sta nella condanna sociale. Chi è stata stuprata e denuncia, diventa una paria. Sappiamo come funziona: la rete di solidarietà degli amici dell’accusato fa terra bruciata intorno alla vittima, le ragazze che non vogliono mettersi contro i maschi si uniscono al linciaggio. Per tutto il tempo in cui la vittima trascorre nel campus, fino alla fine dei suoi studi, non può aspirare ad avere un flirt, una storia d’amore seria con un altro ragazzo perché si crea la reputazione di quella che “prima ci sta, poi si pente, e ti passare i guai”. Oppure sei quella che si ubriaca, perde i sensi “e chissà con quanti è stata senza nemmeno saperne il nome”. La lettera scarlatta. Nel secondo decennio del 2000.

(Maggiori approfondimenti sull'argomento nell'articolo originale di MarieClaire.co.uk)