“Non voglio crescere una troia”. La motivazione della mamma di Elena (nome di fantasia) fu riassunta così quando la portò con la forza a sottoporsi a un test della verginità da un ginecologo. La colpa della ragazza? Aver mandato ingenuamente delle foto provocanti ad un ragazzo via Facebook. Il che significava che la fanciulla poteva aver avuto comportamenti sessuali troppo spinti, stando al giudizio della madre. La storia è riportata su Marieclaire USA nelle inchieste del Fuller Project sui test della verginità, ma è probabile che molte ragazze in giro per il mondo si siano sentite apostrofate dalla stessa parola, prima o poi. Solo per aver esplorato la propria sessualità, solo perché magari avevano deciso di “darla via”. “Si può benissimo diventare una donna senza vivere la propria sessualità, mentre non si può diventare uomo se non vivendola pienamente: ne fanno fede gli stereotipi”. Lo scriveva Elena Gianini Belotti nel 1973 in Dalla parte delle bambine, e oggi la percezione sulla libera sessualità femminile non è cambiata di molto.

Continuiamo a credere all’assoluta verità dell’imene che si rompe, alla verginità che esiste, a concetti di purezza e castità onorevole. Facciamo un salto indietro nel tempo, perché la storia (della medicina, in questo caso) ci insegna che certe convinzioni arrivano da molto lontano, e possono essere ulteriormente distorte nella loro evoluzione. Nel 1536 l’anatomista belga Andrea Vesalio, fresco di studi medici a Parigi, analizzò per la prima volta l’imene femminile studiando il cadavere di una nobildonna morta per problemi polmonari, e definì un concetto rivoluzionario per l’epoca:

non tutte le donne vergini hanno l’imene.

Grande passo avanti per l’anatomia, evviva. Ma fu sempre lui a vergare la triste sentenza di condanna alla purezza per il genere femminile: secondo Vesalio un imene intatto era la prova inconfutabile della verginità di una donna e certificava la sua conseguente moralità. 500 anni dopo, cosa è cambiato? Quasi niente. Il mito della verginità è ancora forte, pervasivo, culturalmente resistente in tantissimi paesi del mondo. La disinformazione impera. A cosa serve l’imene non lo sanno con certezza nemmeno i medici, e i fattoidi non verificabili che circolano sulla verginità raggiungono vette imbarazzanti. L’educazione sessuale si insegna sempre meno, non solo in Italia ma in tutto il mondo, come se conoscere il funzionamento dei propri organi sessuali o fare sesso consapevole sia un crimine. Contro la moralità, solitamente. Al tempo stesso, l’utilizzo di certi esami non validati dalla comunità medico-scientifica continua a diffondersi.

I test di verginità, conosciuti anche come test delle due dita o test dello speculum, vengono ancora oggi considerati strumenti di analisi che permettono di verificare se una donna è ancora vergine o meno. Come funziona il test delle due dita? Le tecniche principali riguardano l’ispezione della forma dell’imene, e l’inserimento di due dita in vagina per misurare la lassità o la resistenza delle pareti vaginali. Entrambi i test si basano sullo stereotipo che l’aspetto dei genitali certifichi l’attività sessuale o meno della donna, riporta lo studio sui test pubblicato su Biomedcentral. Ma non sono veri, mai. Nessuno di questi due metodi dimostra effettivamente se una donna ha avuto veramente rapporti penetrativi, anzi. Eppure si continua a praticarli in moltissimi paesi: un elenco esaustivo comprende Afghanistan, Bangladesh, Egitto, India, Indonesia, Iran, Giordania, Palestina, Sudafrica, Sri Lanka, Swaziland, Turchia, Uganda, Marocco, Brasile, Libia e Giamaica, come riportato da un documento congiunto firmato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, il consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e la U.N. Women nel 2018.

Possono essere svariati i motivi di richiesta di un test di verginità, ma il dettaglio inquietante è che solo in rarissimi casi è volontario. E diventa una questione politico-culturale. Tra le varie parti in gioco -chi lo richiede, chi lo esegue, e chi lo subisce- vincono solitamente le prime due. Lo ha spiegato la sociologa Soumaya Naamane Guessous a HuffPost Morocco fotografando la situazione delle donne del suo paese: “Il test è abbastanza comune tra le donne che devono sposarsi. Di solito lo richiedono i parenti, o il futuro marito o i parenti di lui, che possono domandare al medico se l’imene della futura sposa è intatto o rotto”. Nel caso della linea matriarcale, il test sulla verginità viene interpretato come una forma di tutela da madre a figlia, una premura per non avere problemi: “Una madre può richiedere un certificato come misura di sicurezza per proteggere la figlia da possibili accuse di un futuro marito. I ginecologi marocchini rilasciano un grande numero di certificati di verginità, fino a 10 al giorno nel periodo dei matrimoni, tra giugno e agosto” ha concluso la sociologa. Il test della verginità si nasconde da viatico ad una vita tranquilla senza ritorsioni morali, quando invece è un’invasione della privacy del corpo femminile.

Il caso del Marocco non è affatto solitario. Dall’altra parte del globo, in Indonesia, il test della verginità è richiesto dall’esercito e dalla polizia nazionale per certificare la castità assoluta delle donne che vogliono intraprendere la carriera nelle forze armate. Una ricerca di Human Rights Watch del 2015 aveva evidenziato che anche le fidanzate dei militari indonesiani venivano sottoposte a test della verginità prima del matrimonio, per essere onorevolmente all’altezza dei soldati. Per validare la pratica dei test sulle reclute donne, nonostante la condanna di tutte le principali organizzazioni internazionali sulla salute e la medicina, il generale maggiore Fuad Basya aveva dichiarato alla BBC che è una questione di sicurezza nazionale:

le donne non vergini rappresentano un rischio per la moralità dell’esercito.

La globalizzazione e le migrazioni di molte comunità hanno fatto registrare un incremento di test per la verginità anche in quei paesi dove originariamente non venivano praticati, tipo Canada, Spagna, Svezia, Olanda e Belgio. Diverso il discorso degli Stati Uniti, dove in realtà sono una pratica abbastanza comune. L’indagine su Marieclaire USA ha certificato una realtà agghiacciante: sono tante le donne che vengono forzate a sottoporsi a test delle due dita per dimostrare che sono ancora vergini. I numeri, purtroppo, non sono quantificabili, la riluttanza nel parlarne è una forma di autoprotezione e non si possono spingere le persone a raccontare qualcosa di tanto doloroso soltanto per fare statistiche più precise. Basta sapere che ci sono. Alcune storie sono emerse su piattaforme social tipo Reddit, protette da un anonimato salvifico che aiuta la condivisione e la confessione di ciò che si è subito durante il test. Le donne hanno raccontato di essere state costrette a sottoporsi a test della verginità perché le madri erano terrorizzate che perdessero l’onore, e il silenzioso assenso sulle pratiche da parte dei ginecologi le ha esposte ad un abuso diretto. Esami invasivi praticati senza consenso previo e contro la volontà. “Rape by instrument”, stupro tramite oggetto, l’ha definito B., che ha raccontato la sua lontana esperienza con un test della verginità via speculum.

La convinzione di dover restare vergini fino al matrimonio, o per un uomo, o per essere considerate donne rispettabili, è una distorsione che mette le donne contro le donne. Nello specifico sono le madri contro le figlie, esposte ad una violenza totalmente gratuita, dannosa e inutile, che le danneggia irrimediabilmente a livello fisico, psicologico e sociale. E la risposta più forte è arrivata dalle autorità sovranazionali: i test sulla verginità sono condannati a tutti gli effetti quale vero e proprio abuso nei confronti delle donne, e pratiche discriminatorie di genere sessuale. “È una violazione dei diritti umani delle vittime ed è associato a conseguenze a breve e lungo termine che influiscono sul benessere fisico, psicologico e sociale” hanno scritto gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel documento del 2018. “La pratica dolorosa del test della verginità è un problema sociale, culturale e politico, e la sua eliminazione richiederà una risposta complessiva della società, sostenuta dalle comunità per la salute pubblica e dai professionisti della salute”.

Cosa c’è al centro di tutto? La verginità. Spoiler: la verginità non esiste. A livello medico non ne parlano i manuali, e non esistono procedure mediche che possano effettivamente dimostrarla. La verginità è un costrutto sociale, legato a convinzioni culturali e/o religiose, il più delle volte obsolete ma tramandate quale parte della cultura generale. Inoltre, la verginità sopravvive in una concezione eteronormativa legata alla visione fallocentrica del sesso: l’uomo penetra, la donna concede qualcosa di sacro. In questa convinzione, la verginità ha un valore prezioso per chi la riceve. Uomini, per forza: la penetrazione, nella società etero, è da uomo a donna. Per le lesbiche la questione verginità potrebbe quasi restare sospesa: “Ci sono due opzioni per una donna: vergine o puttana. Non rientro in nessuna delle due categorie. Per un tecnicismo, ti direi vergine” ironizzava la comica Hannah Gadsby, dichiaratamente omosessuale, nel suo strepitoso monologo Nanette, citata nell’introduzione all’interessante podcast Popaganda: Queering Virginity su Bitchmedia.

Si arriva così ad un paradosso della sessualità femminile: considerata inferiore a quella maschile per mancanza del pene, spiegava sempre la Belotti, viene però sacralizzata dall’imene quale “oggetto mitico”, perché permette il mantenimento dell’onore femminile. Ma cos’è l’imene? In un debunking sulla mitologia dell’imene, Giulia Siviero su Il Post aveva tolto di mezzo tutte le fake news che circondano l’anatomia femminile nonostante le ricerche mediche (che, purtroppo, a volte ci mettono il carico: molti stereotipi sulla sessualità delle donne sono perpetrati, a volte inconsciamente, dagli stessi studi ginecologici che dovrebbero abbatterli). Il mistero dell’imene parte dalla sua forma: non è una membrana, il che farebbe presupporre la rottura quando entra a contatto con qualcosa. Piuttosto, l’imene è un ripiegamento dei tessuti delle labbra vaginali e può avere forme diverse da donna a donna, si modifica anche nel corso dell’età.

Alcune donne nascono senza imene, altre ce lo hanno tanto spesso da ricoprire l’apertura della vagina e rendere difficile il deflusso del sangue mestruale, ma un piccolo intervento risolve la questione. L’imene può rispondere alle sollecitazioni esterne -il pene, appunto, ma anche i sex toys e i vibratori- allargandosi o restringendosi: sa adattarsi. E come un elastico, può arrivare ad un punto di tensione che viene interpretato come una rottura dell’imene, ma in realtà è una piccola lacerazione assolutamente naturale. L’imene non si buca come un palloncino, non si strappa come un tessuto, non subisce visibilmente le sollecitazioni totalmente esterne. Nel caso della prima volta, il sanguinamento erroneamente considerato la prova di quando si perde la verginità è dovuto probabilmente alla scarsa lubrificazione e alla tensione muscolare dovuta all’emozione. Nonostante i chiarimenti medico-fisiologici, la forma, la grandezza, lo spessore, la presenza o assenza dell’imene si trasformano ancora in strumenti per demonizzare la sessualità delle donne.

La verginità vista come un fiore innocente, delicato, che viene colto o strappato con la prima penetrazione, è l’ultima ossessione reazionaria della società patriarcale: non a caso si usa il termine “deflorazione” per descrivere la penetrazione. Si ritorna alla dolorosa certezza che il corpo di una donna non è mai davvero suo. È sempre di proprietà di qualcun altro: padri, mariti, fratelli, fidanzati. E madri, che per costrutto sociale credono di dover per forza seguire la strada tracciata, allungando la catena di abusi dei diritti femminili. Il corpo delle donne viene svalutato continuamente: averne il controllo significa soverchiarlo più facilmente. “Sembrerebbe quasi che, attraverso le varie culture, gli uomini si siano messi d’accordo per scovare il modo di controllare la donna, limitandone la sessualità e la capacità di disporre del proprio corpo”. Dagli anni 70 di Belotti ai disincantati 2018 di Nina Brochmann e Ellen Støkken Dahl e il loro Il libro della vagina, le cose non sono tanto diverse. La verginità è ancora vista come un valore. Ma non esiste, se non in una visione culturale retrograda e senza futuro. Polverizzare questa convinzione sul corpo femminile (e conseguente sessualità) è ancora molto complicato, ma cominciare a capire che la propria storia personale e sessuale non deve essere normata dall’imene, è già un buon inizio.