Non è semplice raccontare la parabola di The Affair, la serie che attraverso un tradimento e le sue conseguenze ci ha mostrato un efficace spaccato della contemporaneità.

Ma di certo c’è che, per spiegarne il successo e la seguente parabola discendente nel cuore del pubblico, bisogna partire dalla doppia (e a volte anche tripla, quadrupla, quintupla) prospettiva da cui ha deciso di raccontare il mondo e che parte, come accade per ogni buon prodotto televisivo, da una prospettiva di scrittura altrettanto multipla: un’autrice, Sarah Treem (creatrice delle tre stagioni di In Treatment, scrittrice e produttrice esecutiva della prima stagione di House of Cards e ora fresca di contratto esclusivo con Fox 21) e un autore, Hagai Levi, che hanno lavorato in coppia per due stagioni creando un prodotto televisivo in grado di mostrare la potenza della narrazione alternata come forse mai nessun’altra serie prima.

Fin dal primo episodio, The Affair (in Italia in onda su Sky e NOW TV ndr) ha infatti capitalizzato con grande intelligenza sulla possibilità di raccontare la stessa storia da due punti di vista diversi, catturando l’amore di un pubblico incuriosito e affascinato dal vedere esplicitato sullo schermo ciò che avevano sempre saputo delle relazioni ovvero che non esiste una verità oggettiva sui sentimenti, ma solo una verità personale, fatta di ricordi filtrati dalle sensazioni del momento, dall’elaborazione successiva, dall’autostima e dalla percezione di sé di ciascuno. Così l’insicurezza di Helen rispetto al suo invecchiare traspariva dal suo percepirsi, nel ricordo, sempre un po’ più trascurata esteticamente di come la vedeva Noah, sempre un po’ meno elegante e sofisticata di come la vedeva Alison con il suo senso di inferiorità verso i soldi e la posizione di una ricca borghese.

Allo stesso modo vedevamo anche i fatti che sembravano indiscutibili cambiare, a seconda della percezione di ciascuno sul dove, il come, il quando, rendendo più difficile parteggiare per un personaggio o per l’altro e mettendo in scena paradossalmente la versione più oggettiva dei fatti possibile, proprio grazie all’assenza di un punto di vista certificato dallo show come affidabile. La mancanza di un narratore affidabile significava per la serie la possibilità di non parteggiare per nessuno e grazie a questo riuscire, specie nelle sue prime stagioni, a raccontare le due coppie (Helen, Noah, Alison, Cole) e un mondo intero di personaggi secondari senza perdere le contraddizioni e le nuances della vita reale.

Non c’erano eroi ed eroine in The Affair, solo gente che sbagliava a ripetizione come tutti quanti nella nostra vita.

Ovvio che così tanta libertà nel poter far contraddire i propri personaggi mette a rischio di incoerenza e scarsa solidità, che è esattamente quel che è successo dalla terza stagione in poi: i protagonisti sono diventati sopra le righe, le vicende così piene di colpi di scena da prendere il sopravvento sull’approfondimento, le visioni divergenti così estreme che in più di un’occasione si è sfiorato l’assurdo, un effetto alimentato anche da un’ambientazione sempre più lussuosa che finiva per intensificare l’effetto “soap opera”. Ma nonostante gli eccessi, The Affair non ha mai perso quella qualità provocatoria e irriverente che aveva conquistato tutti e ha continuato a ribellarsi alle convenzioni del prestige drama mettendo in ridicolo i proprio personaggi (con una particolare crudeltà verso Noah) e rifiutandosi categoricamente di assolverli o giustificarli, tantomeno redimerli.

In tanti suggeriscono che il divorzio a cui è andata incontro Sarah Treem durante la terza stagione abbia influito su questa visione dark e soprattutto sulla sfumatura che il personaggio di Dominic West ha assunto man mano, trasformandosi da quarantenne intellettuale bello e tormentato nel ritratto grottesco dell’autoassolutorio e misogino maschio medio di mezza età. Sarah Treem ha usato le ultime tre stagioni per distruggere passo passo le certezze e la stabilità di Noah, mettendolo nelle condizioni di fare i conti con tutto ciò che aveva sempre dato per scontato: posizione sociale, affetto dei figli, successo professionale e sadisticamente scrivendo per lui perfino una storyline ispirata al #metoo che lo destabilizza definitivamente, regalandogli però una redenzione finale che per alcuni potrà essere banale, ma suona perfettamente giustificata alla luce delle esperienze traumatiche che non potevano che renderlo un uomo migliore.

Questa parabola discendente si è rivelata perno narrativo indispensabile quando man mano The Affair si è persa per strada sia Hagai Levi, pare per divergenze con lo sviluppo narrativo scelto da Treem, che metà del cast principale: dalla quinta stagione infatti sono assenti sia Joshua Jackson sia Ruth Wilson, che interpretava Alison e che forse se n’è andata per disaffezione verso la fine scelta per il suo personaggio (che Wilson immaginava meritevole di una conclusione meno tragica e più empowering), forse perché non pagata abbastanza rispetto a Dominic West, forse perché il personaggio aveva fatto il suo corso o forse per quella che l’attrice stessa ha sottinteso come “a much bigger story”.

Cancellare un intero arco narrativo è stata una sfida notevole da affrontare per la stagione conclusiva, che ha assorbito il colpo dando spazio alle dinamiche famigliari di Noah e di Helen, che grazie all’interpretazione di Maura Tierney è diventata il cardine più solido dello show dandoci la possibilità di vedere riflessi sulla sua personalità i cambiamenti di quella di Noah. L’abbiamo vista rinascere più volte, acquistare sicurezza, capire chi era e di cosa aveva bisogno ed emanciparsi dal proprio ruolo di genere speculare a quello del marito, certamente tra alti e bassi ma sempre diretta verso una strada di autoaffermazione.

È facile vedere nelle evoluzioni della coppia e nel loro improbabile lieto fine una metafora dei rapporti uomo/donna contemporanei, con la mascolinità classica in crisi e la femminilità che prende posizione, in un continuo bilanciamento di potere che si trasforma a tratti in una lotta vera e propria a cui però Sarah Treem decide di dare una risposta positiva e solare, immaginandone una (ri)conciliazione finale tanto più credibile perché diversa dall’armonia iniziale e tanto più amara perché avviene nel contesto di un tramonto non soltanto di una cultura, ma anche di un pianeta.

The Affair sceglie infatti di sostituire, nel finale, Alison e Cole con la figlia Joanie (interpretata da Anna Paquin), un personaggio apparentemente inutile e incoerente ma che invece riesce a mostrarci non solo le conseguenze delle scelte dei genitori sulla sua vita ma letteralmente l’impatto delle loro vite (e di quelle di tutti noi) sull’esistenza come la conosciamo. Joanie è una donna del futuro che deve fare i conti coi cambiamenti causati dal climate change sull’ambiente e che vive in un mondo sull’orlo della morte, rappresentato dalla Montauk a noi tanto familiare - che è diventata praticamente un personaggio a sé stante - distrutta dalle mareggiate e abbandonata, abitata solo da anziani e disperati. Cosa c’è di più iconico per rappresentare la fine del mondo che il posto dove tutto è iniziato sommerso dall’oceano che ha avuto un ruolo così preponderante nelle vicende di The Affair? Come una maledizione che sopravvive alla morte di Alison l’acqua inghiotte anche la vita dell’altra sua figlia come aveva preso il suo primogenito, svelando che nonostante la ricerca di una conciliazione finale, lo spirito della serie è sempre rimasto lo stesso: dark, pessimista, incapace di trovare giustificazioni ai propri personaggi e perfettamente consapevole della carica distruttiva e autodistruttiva della nostra natura umana.