Quella che l’ha capito meglio è Donatella Versace: alle adulte di oggi non importa nulla del presente. Possiamo fingere d’interessarci al futuro e d’impegnarci per le sorti del pianeta, se serve. Ma ad appassionarci davvero è il passato: il nostro. Quello di diciannove anni fa, in cui Jennifer Lopez indossava il vestito verde a fil di capezzolo (che Donatella le ha fatto portare in passerella lo scorso settembre); quello di venticinque anni fa, in cui Avedon fotografava i vestiti d’oro disegnati da Gianni (quelli che Donatella ha fatto indossare alle stesse modelle di allora, l’anno scorso); e di nuovo quello di venticinque anni fa, in cui Liz Hurley indossava quel vestito con le spille da balia che m’aspetto venga fatto presto sfilare in quota madeleine da Donatella, custode della nostra nostalgia.

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Vittorio Zunino Celotto//Getty Images
Jennifer Lopez e il ritorno del Jungle Dress di Versace

È sempre stato così, ma non è sempre stato così. Negli anni 80 i miei genitori quarantenni ascoltavano Battisti e i Beatles, cioè i consumi culturali di quand’erano ventenni. Ma non ne facevano un’epica. Il pop, negli anni in cui erano loro a vestire alla marinara, era stato un sottofondo, non un protagonista. Poi siamo arrivati noi, coi poster in cameretta e i negozi che vendevano le foto. La colpa (il merito?) è di quella casualità temporale che ci ha fatto nascere nell’epoca di mezzo: in cui era tutto reperibile ma prezioso, in cui la pervasività del pop non era inesistente come ai tempi dei nostri genitori (che non avevano avuto i testi delle canzoni in sovrimpressione a Deejay Television) ma neppure svalutata dall’eccesso di disponibilità com’è per i quindicenni di oggi, che hanno tutto - dalle parole delle canzoni alle vite dei cantanti - sul telefono.

Avevamo i film in bianco e nero in lingua originale, ma se li volevamo guardare dovevamo sintonizzarci la domenica sera su Rai 3; avevamo le versioni alternative delle canzonette, ma se volevamo ascoltarle dovevamo comprare i bootleg; avevamo le foto rubate delle teen star, ma nei negozi di souvenir. Esistevano ragazze come noi che, in vacanza studio a Londra, fotografavano, chessò, John Taylor (o il suo indotto: la porta di casa sua, la sua macchina parcheggiata), e poi vendevano la foto (stampata!) ad appositi negozi dove le fan potevano acquistarla.

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Fin Costello//Getty Images
John Taylor bassista e co-fondatore dei Duran Duran

A raccontarlo oggi, alla generazione di Instagram, non ti credono mica. Se a quindici anni hai pagato mille lire per una foto d’un tizio famoso, a quarantacinque sarai determinata a ritenere importanti le cotte che avevi a quindici per i tizi famosi: il revisionismo autobiografico prevede che tu fossi pregna di Zeitgeist, mica una scema qualunque. Dunque quelli che mia nonna avrebbe chiamato “i giovani d’oggi” sono al sicuro, con tutto gratuitamente a disposizione, liberati rispetto ai loro consumi culturali dal desiderio e quindi dalla fossatiana sindrome «benvenuto anche il tuo nome tra le future nostalgie»? Fosse così facile.

Quando è stato annunciato il seguito di Beverly Hills 90210, una serie per adolescenti che in Italia era andata in onda dall’autunno del 1992, un giornale m’ha chiesto di scriverne. Ho fatto una cosa che non avevo mai fatto prima (e probabilmente non farò mai più): declinare l’offerta di rievocare la mia via Gluck. Per una ragione tecnica: quando iniziarono a trasmetterlo avevo vent’anni, la mia vita sessuale era la mia principale occupazione, uscivo tutte le sere e di sicuro il giovedì non stavo a casa per vedere un telefilm di liceali. Non è che non conosca 90210, ma non fa parte del mio vissuto. Sono l’unica, a quanto pare. Qualche mese dopo è morto Luke Perry, che della serie era il protagonista, e tutte - che all’epoca fossero troppo grandi per trovarlo interessante, o troppo piccole per guardare la tv la sera - hanno praticato il loro bravo revisionismo: giuravano tutte d’averlo amato allora e d’essere vedove di Luke Perry ora. L’appropriazione indebita di cadavere un tempo era affare che riguardava gli adulteri (amanti trentennali che venivano cacciate dai funerali dell’amato da mogli determinate ad avere in morte la monogamia che non erano riuscite a ottenere in vita); ora, è una faccenda che riguarda i ricordi. Nella più nostalgica delle epoche, il passato è l’unico con cui intendiamo avere una relazione monogamica.

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Fox Broadcasting//Getty Images
Il cast di Beverly Hills 90210

Se si può essere nostalgiche già al ginnasio, risulta più comprensibile l’operazione ripescaggio per cui, quando Glee (una serie per adolescenti finita quattr’anni fa) viene resa disponibile da una piattaforma streaming, ci ritroviamo con diciassettenni in piena sindrome retromania. Non c’è più un’età minima per i «com’era verde la mia valle», e neanche una massima. James Wolcott è un critico culturale d’un certo prestigio. Sulla London Review of Books ha scritto un lunghissimo saggio su Bret Easton Ellis. A un certo punto, spiega che lo scrittore ha un podcast; e, arrivato a raccontare la puntata in cui ne è stato ospite Jay McInerney, sembra me quando rievoco Miguel Bosé a Vota la voce (se non sapete cosa fosse Vota la voce non abbiamo niente da dirci). Dice Wolcott che risentirli insieme è stato come rivedere Ross e Rachel, cioè la coppia tira-e-molla di Friends. Wolcott ha 67 anni. Significa che ne aveva circa 35 quando Bret e Jay comparivano insieme nelle cronache mondane, e circa 45 quando gli americani guardavano Friends. Wolcott ha vent’anni più di me, e io sono terrorizzata: significa che tra vent’anni sarò lì a struggermi di nostalgia per un qualche sceneggiato di queste settimane? Significa che l’adolescenza dei consumi culturali non cade mai in prescrizione?

Finora il meccanismo era chiaro: nella storia della cultura popolare, ogni adulto ha considerato i suoi quindici o vent’anni l’età dell’oro del pianeta. È per quello che nel 1974 il quarantenne Garry Marshall ambientò Happy Days negli anni Cinquanta; o che Carlo Vanzina, nel 1983, spostò il film delle vacanze nei beati anni della sua adolescenza, e così in Sapore di mare era il 1965. È una certezza commerciale così chiara che abbiamo passato gli ultimi anni a vedere ripescaggi degli anni 80 e 90, e non è mica finita: solo mentre scrivo queste righe mi sono passati davanti l’annuncio d’una serie televisiva ispirata a Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, il romanzo che negli anni 80 fece scoprire i tecnicismi dell’eroina anche alle ragazze morigerate; e quello dell’arrivo a Broadway del musical tratto da Mrs Doubtfire, orrendo e popolarissimo film per famiglie degli anni 90. È una dinamica ovvia: nessun Sanremo sarà mai bello come quelli con la scritta “Totip” che giganteggiava nella scenografia; nessun film ci spiegherà mai la vita con l’efficacia di Flashdance o Attrazione fatale; nessun uomo mi farà soffrire quanto il tredicenne che mi restituì la musicassetta di Whitney Houston col nastro masticato.

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Sunset Boulevard//Getty Images
Glenn Close e Michael Douglas in Attrazione Fatale

È una dinamica nota, che però non prevedeva il quasi settantenne retromaniaco rispetto ai suoi cinquanta; né il ventenne già nostalgico (di cosa, degli omogeneizzati?). Mi chiedo se abbia un senso, e non riesco a trovare la risposta giusta. Sì, ce l’ha: la nostalgia è una nevrosi esigente, e richiede sempre nuovi consumatori; stiamo entrando in un nuovo decennio, è bene formare piccoli retromaniaci pronti a struggersi su com’era meglio il 2000 (che era l’altroieri, ma soprattutto era un anno in cui ero un’adulta con le bollette da pagare, come posso esserne nostalgica? Wolcott, insegnami). No, non ce l’ha: di che cosa potrà mai avere nostalgia una generazione cresciuta in anni di ripescaggi, di Techetechetè, di remake e sequel e minestre riscaldate? Non dovrebbero produrre immaginario nuovo oggi, per poterlo rimpiangere domani? Non staranno sbagliando pianificazione e rischiando di trovarsi coi magazzini vuoti, senza più niente da rievocare se non in terza battuta, con una retromania che è la copia di mille riassunti? Forse sì, ma nessuno si senta escluso: finiti di rievocare i 90 e gli 80, noialtre cinquantenni che abbiamo fatto del rimpiangere la via Gluck un mestiere abbiamo passato l’autunno a esaltarci per la comparsa su Spotify della discografia di Lucio Battisti, il cantante che ascoltavano le nostre mamme. A pensarci bene, è già di terza mano, questa nostalgia che è l’anima del commercio.