È il vicino ideale della porta accanto, un personaggio tipico di una certa Roma tipica che è rimasta autentica nonostante tutto. È il nonno o il papà che tutti vorrebbero avere, sarà, forse, la sua disponibilità all’attenzione, all’ascolto – doti assai rare – il sorriso che arriva a consolarti quando meno te lo aspetti, la risata sempre garbata come i suoi modi, o forse tutte queste cose insieme. Gianni Di Gregorio è Gianni Di Gregorio, è così come lo si vede nei suoi film e, spesso, trovare differenze tra la sua vita reale e quella cinematografica, risulta difficile. Al cinema ha sempre lavorato, prima come sceneggiatore e aiuto regista (di Matteo Garrone ad esempio, che l’ha voluto per i suoi primi film e per Gomorra), poi autonomamente, facendosi conoscere come regista nel 2008 con un esordio a dir poco strepitoso, Pranzo di Ferragosto – il film con le simpatiche vecchiette che gli fecero conquistare il Lido durante la Mostra del Cinema di Venezia. “Quelle vecchiette hanno fatto la mia fortuna”, ci spiega quando lo incontriamo a Roma in un bar davanti a Santa Maria in Trastevere e a un bicchiere di prosecco. “Quella che faceva mia madre (Valeria De Franciscis, ndr), all’epoca aveva 91 anni: mi telefonava davvero dopo il film chiedendomi se avessi indossato la maglia di lana e se avessi mangiato mentre mi ricordava di smettere di fumare. “Non aveva figli maschi, ma due figlie – continua - ha voluto forse riversare qualcosa in questo. La sua era la telefonata che aspettavo ogni sera alle otto, ci tenevo molto. Le ho chiesto tante cose, ad esempio come avesse fatto a stare con un uomo per più di cinquant’anni. Il segreto? La forma – mi rispondeva – sempre e soltanto la forma, anche in casa. Deve esserci sempre l’educazione. Del suo insegnamento ho fatto tesoro e cerco ora di mantenerla con la mia famiglia”.

Di Gregorio è rilassato, visto anche il successo ricevuto dal nuovo film, Lontano Lontano, accolto con molti applausi al 37esimo Torino Film Festival, dove è stato presentato in anteprima, in attesa dell’uscita in sala prevista per il 6 febbraio 2020 per Parthénos. È la storia di tre romani sulla settantina, ognuno disastrato a suo modo - Attilio (Ennio Fantastichini), Giorgetto (Giorgio Colangeli) e il Professore (lo stesso Di Gregorio) – che un giorno decidono di lasciare la loro vita di quartiere per andarsene all’estero, perché (forse), lì sarà tutto più facile. “Prima con le vecchiette, adesso con i vecchietti, è stata mia figlia a farmelo notare per prima, anche se loro tre in realtà tanto anziani non sono”, ci spiega il regista neo settantenne. “Ho questa fissa per le persone di una certa età, forse perché sono quelle che conosco meglio, anche perché al cinema come regista sono arrivato tardi. Il film con cui ho esordito, a 57 anni, ha come temi e personaggi gente grande. Spero di uscirne da questo mio cliché, ma non perché sia finita la mia di vita”. E ride. “Avevo scelto come titolo Cittadini del mondo – continua - ma poi con la produzione e distribuzione abbiamo scelto quest’altro, molto più evocativo, che ha un’eco particolare e mi piace molto. Ognuno di noi ha il suo posto Lontano Lontano che vorrebbe raggiungere, anche se l’ideale sarebbe un po’ qui, un po’ lì”.

Quei tre personaggi sono tre uomini semplici, normali e carichi ancora di vita. Anche Di Gregorio confessa di sentirsi così. “Ultimamente, mi hanno detto sull’autobus se mi volevo sedere e mi sono offeso. Tutti a ridere ovviamente. Per me l’invecchiamento è una novità, lo vedo come una lontananza. Loro hanno anche le loro paure, di abbandonare qualcosa e qualcuno per andare ad esempio lontano. Hanno il cuore buono che è qualcosa che va oltre l’ego e i propri affari”. Il professore da lui interpretato è annoiatissimo, “è il più vigliacco di tutti perché rappresenta il più borghese dei tre, il più radicato”. Ha una sua sicurezza mensile, ma deve pagare affitto e bollette. Viene coinvolto dalla foga di partire, ma non è affatto convinto. Incontra un suo studente che non si ricorda del latino che gli ha insegnato anni prima, ma solo di lui. “In realtà, le lingue morte servono tanto. Io ero uno da cinque al liceo, eppure ancora oggi, se mi capita, riesco a tradurre alcune frasi, quindi questo significa che di quella o di quelle lingue morte, qualcosa ti resta, ti lasciano un’apertura mentale”. Giorgetto, interpretato da Colangeli, rappresenta l’uomo senza sovrastrutture, quello che in tanti momenti si vorrebbe abbracciare, quello che ti restituisce sempre qualcosa. Ha una sua paternità nei confronti del ragazzo di colore che gli chiede di usare il suo bagno per lavarsi, facendolo diventare la sua famiglia in qualche modo. “La famiglia non è quella tradizionale, ma anche quella che ognuno di noi si crea”. Attilio, interpretato da Fantastichini, qui alla sua ultima interpretazione (“un uomo pazzesco che non conoscevo bene, un attore straordinario con una tensione morale altissima”), è invece il più sveglio dei tre, è l’amante dei viaggi, uno che è andato in motocicletta in Afghanistan quando aveva venti anni, che è poi quello che avrebbe voluto fare Di Gregorio quando era giovane. “Facemmo dei preparativi con gli amici – ci racconta - ma la mia moto era troppo vecchia per andarci. L’idea vera del film inizia proprio da lì. L’Afghanistan era un mito alla fine degli anni Sessanta. Adesso purtroppo è pericoloso. Con degli amici andammo alla concessionaria delle Moto Guzzi chiedendone una in cambio di un reportage sul viaggio. Si misero a ridere e ci offrirono il caffè, avevano già i loro piloti. Ora mi è tornata voglia di andarci, chissà se mai lo farò”.

Ogni suo film si caratterizza spesso per una lentezza che ha sempre però un suo dinamismo. Qui il movimento c’è come una scansione in settimane e giorni che dà’ la sua velocità alla vitalità di quei tre uomini che non è mai disperata, ma piena di lucidità. L’idea di Lontano Lontano gliel’ha data Matteo Garrone. “Fai un film sui pensionati poveri che devono partire, mi disse, e l’idea mi piacque tantissimo. Ci ho messo tre anni per scriverlo e portarlo a termine. La storia si è adattata ai tempi. Il personaggio di Abu (Salih Saadin Khalid, ndr) non era previsto. Mentre scrivevo di questi tre, anche divertendomi, perché stavo con dei caratteri umani molto interessanti e diversi tra loro, uscirono fuori le notizie degli sbarchi. Ho pensato che non si potesse prescindere dal non parlare di questo, perché mi coinvolgeva tutti i giorni”. “Mi sono incavolato molto, ribadisce lui fissandoci negli occhi, perché prima i migranti si salvavano, poi c’è stato un totale abbandono. Quindi è nato il quarto personaggio (il giovane Abu, ndr) che rappresenta il vero viaggiatore che l’abbiamo trovato a Riace prima che succedesse tutta la storia. Quando l’ho conosciuto mi sono commosso, è un attore dotato di straordinaria semplicità.

Trastevere è da sempre casa sua e come Pranzo di Ferragosto, anche quest’ultimo film è ambientato in quel quartiere romano, sicuramente uno dei più caratteristici e particolari. “Trastevere ha la dimensione di villaggio, una dimensione che purtroppo sta finendo, ma c’è uno zoccolo duro di abitanti che resiste. Rappresenta tantissimo per me: è il posto in cui sono nato, è quello dove sono nate amicizie enormi, amicizie miste. Pensi che il personaggio interpretato da Colangeli è ispirato al Vichingo, un mio amico di qui, chiamato così perché aveva gli occhi azzurri. Vedendo questa gente mi sono ispirato alle mie storie. A Trastevere c’è ancora il lato migliore dell’uomo e c’è la solidarietà, c’è sempre stata questa cosa dell’accoglienza. È il quartiere dell’accoglienza di Roma. Qui a Trastevere sono anche un po’ prigioniero, ma mi va bene così”. Nel film c’è Giorgetto che non è mai uscito da Porta Settimiana, una delle porte del quariere, che per Di Gregorio rappresenta perfettamente “la metafora del romano”. “Il romano è pigro, sta sempre nel suo quartiere, non si muove. È terribile dirlo, ma anche io sono così. Se devo andare a Parigi, due o tre giorni prima sto malissimo, c’è qualcosa che si trasmette…i romani prendono in giro la loro città a volte, ma hanno il cuore enorme”. Il difetto più grande? “Oltre alla pigrizia, il menefreghismo, il lasciarsi andare, il non uscire da quella porta. Sono in tantissimi a farlo, più di quanto si pensi”. Questo non uscire si ripercuote anche sulla mentalità, ma c’è sempre però una porta aperta nei sentimenti. “Pensando a questo, mi sono ritrovato a lavorare su questi tre personaggi e sull’uomo, sulla sua parte buona. Sono uno che ha paura della violenza in ogni sua forma. Mi piace ancora parlare della parte buona che secondo me c’è in ognuno di noi. Basta solo fare un piccolo sforzo per cercarla e farla venire fuori”.