Stiamo abusando della parola mansplaining e la usiamo a sproposito? A quanto pare, sì, e una parola di quelle preziose con la capacità di condensare in pochi fonemi un concetto enorme, rischia di essere messa in pensione per noia. Partiamo dall’inizio. Siamo nel 2014 e la saggista statunitense Rebecca Solnit, al tempo 43 anni, è a un party pieno di intellettuali newyorkesi quando si intrattiene a conversare con un collega scrittore (di cui non ha rivelato il nome) e comincia a spiegargli qual è il nuovo progetto su cui sta lavorando. Quello la interrompe bruscamente e le consiglia la lettura di un altro saggio da cui può trarre ottimi spunti per la stesura del suo nuovo libro. Solo che il libro che l’uomo stava citando lo aveva scritto lei. Da quell’episodio è nata l’idea di scrivere Gli uomini mi spiegano le cose (uscito anche da noi per Ponte alle Grazie) il bestseller in cui, detto brutalmente, Solnit spiega in una collezione di sette saggi brevi l’abitudine culturale di molti uomini di dare per scontato che una donna non sappia qualcosa, nel suo caso spinta veramente al parossismo risibile.

In poche parole, il mansplaining è quel fenomeno che si manifesta quando, ad esempio, un uomo di 35 anni consiglia a una donna di 50 appassionata di fantascienza di vedere Blade Runner (“scommetto che ti piacerà”) senza pensare che lo avrà visto al cinema in prima visione e poi chissà quante altre volte. O quando un ricercatore parla con una collega professionalmente più anziana scandendo le parole come se fosse sorda (o scema?). O il vicino di casa ti spiega entusiasta come funziona Alexa perché lo ha appena comprato, e tu continui a ripetergli che ce l’hai da un sacco, ma niente, non ti dà retta. Un articolo uscito su The Cut racconta come il termine sia nato nei blog femministi che commentavano il libro di Solnit - perché non è stato coniato da lei come pensano in molti -, e si sia poi diffuso soprattutto negli uffici in cui le professioniste vivono la quotidiana guerra contro i colleghi che esibiscono la presunzione (sessista) di sapere di più su un argomento rispetto a una donna, non importa quali siano le sue credenziali, anche se sono dei sottoposti.

Poi il termine è entrato anche nel lessico degli uomini consapevoli. Tutto molto bello, se non stesse facendo la fine della diagnosi di analfabetismo funzionale; per l’Unesco non è altro che “la condizione di una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”. Ma ovunque, soprattutto sui social, si usa ormai come sinonimo di “stupido”, che non è la stessa cosa. Sempre su The Cut, si citano tre casi recenti di donne politiche americane in cui la parola mansplaining è stata usata, da loro stesse, per ribellarsi a un ordinario contraddittorio nello svolgimento di dibatti istituzionali nei quali, casualmente, la discussione era tra un uomo e una donna. Insomma, ormai viene usata per “caratterizzare una varietà sempre crescente di interazioni spiacevoli tra un uomo e una donna, anche quelle che in realtà non sono contrassegnate dall'aggressione sessista”, spiega Bridget Read, autrice dell’articolo. E la cosa grave è che a farne abuso, in questo caso, sono donne appartenenti al versante politico che si oppone effettivamente agli obiettivi del femminismo. Una di queste tre, Joni Ernts, si è recentemente battuta per non vietare agli uomini precedentemente condannati per violenza domestica di acquistare armi da fuoco, per dire. Ma anche lontano dagli Usa e dalle sue dinamiche politiche, vediamo l’uso improprio del mansplaining, senza farci caso, nella nostra vita quotidiana. Un processo degenerativo che sta subendo, nello stesso identico modo, la parola patriarcato. Il risultato? Stiamo rischiando di assottigliare e appiattire tutto. E sarà ancora più difficile far valere le proprie ragioni, quando le armi lessicali che avevamo saranno tutte spuntate dall'usura.