Come definire la female gaze, lo sguardo cinematografico femminile? Parliamo di quel punto di vista artistico sul mondo che la teoria cinematografica femminista cerca di individuare in risposta alla male gaze, ovvero quel modo di ritrarre le donne e il mondo da una prospettiva maschile eterosessuale che è una costante del cinema, teorizzato da Laura Mulvey. È difficile definire la female gaze perché il punto di vista femminile nel cinema non è stato finora raccontato abbastanza per essere codificato: secondo il report It’s a Man’s (Celluloid) World del Center for the Study of Women in Television & Film della San Diego State University, ancora nel 2019 la percentuale di donne dietro la cinepresa (registe, sceneggiatrici, produttrici...) all'interno dei maggiori cento film dell'anno per incasso era ancora un misero 20%. Con questi numeri e con una critica e un'accademia altrettanto dominate dagli uomini, è logico che lo sguardo femminile resta poco visibile, poco studiato, soprattutto mai sistematizzato. Ancora definito solo dalla differenza, ovvero dal NON essere male gaze, la prospettiva mediata da un maschio dietro la cinepresa e/o dal tentativo di compiacere uno sguardo maschile spettatore.

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Ma le cose non sono così semplici: non basta il genere di chi dirige o scrive a definire la prospettiva, perché le donne (specialmente spettatrici e critiche) assoggettate per un centinaio d'anni allo sguardo maschile del cinema e obbligate a identificarsi in esso e adeguarsi ad esso, spesso faticano a scrollarselo di dosso e ragionano sul cinema, e sulle altre donne, con un punto di vista oggettificante assolutamente figlio della male gaze. Come scriveva Margaret Atwood in The Robber Bride: "You are a woman with a man inside watching a woman. You are your own voyeur (Tu sei una donna con un uomo dentro che guarda una donna. Tu sei il tuo voyeur personale)". Tutt'altro che sorprendente, visto che quello maschile è l'unico modo in cui ci insegnano a guardare, che sia un'impresa quasi impossibile definire lo sguardo femminile, ma poi arrivano registe come Céline Sciamma a dimostrare che esistono le eccezioni, e che la female gaze esiste ed è solo lì in attesa di venire studiata, seguita, interiorizzata.

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In Ritratto della Giovane in Fiamme film di Céline Sciamma racconta una storia di sole donne, in cui l'assenza maschile non è uno strumento per dimostrare una tesi ma un elemento intrinseco del racconto, perché è la storia di due ragazze in un momento sospeso e di un incontro che apre la loro vita a un ventaglio di emozioni e azioni possibili solo in quel momento, possibili solo perché lo sguardo e la dominanza maschile sono fortuitamente assenti. Marianne (Noémie Merlant) è una pittrice, isolata dal mondo maschile per scelta e per necessità, e Héloïse (Adèle Haenel) è una nobildonna appena uscita dal convento e promessa in sposa a un aristocratico milanese; se la prima è cresciuta nel mondo dominato dagli uomini emancipandosene per scelta e per necessità, la seconda è ancora in procinto di entrarvi con riluttanza, costretta a un matrimonio di convenienza che la inserirà a forza nel ruolo di moglie e madre. Siamo nella Francia del 18esimo secolo, prima della Rivoluzione Francese, dunque rifiutare un matrimonio è un'opzione impraticabile e essere moglie è un destino a cui una donna può sfuggire solo con la morte (e infatti la sorella di Héloïse si è suicidata per evitarlo), ma la giovane aristocratica sta tentando comunque di esercitare la propria volontà con l'unica arma a propria disposizione: rifiutarsi di posare per il ritratto che deve essere inviato al promesso sposo, rimandando il momento il più a lungo possibile. È qui che entra in gioco Marianne, ingaggiata dalla madre (Valeria Golino) come ultimo tentativo di convincerla a farsi ritrarre nella speranza che una donna riesca a penetrarne meglio la corazza di determinazione, oppure ritraendola di nascosto mascherando l'inganno con la complicità e l'amicizia.

Lo sguardo maschile si contrappone già qui allo sguardo femminile in modo chiaro ma non programmatico, mettendo agli opposti la figura incombente del Milanese che deve visionare per comprare una moglie, accertandosi che corrisponda ai suoi gusti come un ortaggio da selezionare al mercato e lo sguardo da artista di Marianne, che nel ritratto che esce dagli incontri rubati con Héloïse non riesce a vedere nulla dell'essenza di lei, nulla che la soddisfi come pittrice ma anche come essere umano che subisce il suo fascino malinconico e compostamente ribelle. Isolate dal mondo esterno in un castello sul mare, disadorno e disabitato se non per la presenza della cameriera Sophie, Marianne e Héloïse cominciano un altro ritratto aprendosi l'una all'altra, si conoscono finalmente e lentamente si innamorano, sapendo che il loro tempo è limitato. Un amore lesbico intellettuale, emotivo e sensuale raccontato senza il fastidioso voyeurismo oggettificante che spesso caratterizza le storie lesbiche raccontate da uno sguardo maschile (come La vie d'Adèle di Abdellatif Kechiche) e messo in cornice dalla condizione femminile, quella marea indistinta di sacrifici e rinunce a cui sono da sempre costrette le donne per sopravvivere nel mondo, anche al di fuori della discriminazione di orientamento: l'aborto di Sophie, l'impossibilità di lavorare alla pari con gli uomini nell'arte di Marianne, in generale l'impossibilità di decidere il proprio destino come esseri umani completi. Marianne e Héloïse, ma anche Sophie, mentre il ritratto prende forma guardano al mondo per una manciata di giorni come gli individui che potrebbero essere ma nessuno consentirà mai loro di essere, in un tempo sospeso di unione che non è semplice “sorellanza” ma quasi una società alternativa, autorizzata ad esistere per un minuto prima che le regole esterne tornino ad esercitare la loro dittatura su corpi e menti femminili.

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Il film Ritratto della Giovane in Fiamme è anche un ritratto dell'ingiustizia guardato dall'interno, con una prospettiva che illumina la strada per indagare cosa sia, e dove stia andando, questa female gaze che tanto cerchiamo, perché prospettiva interna significa, per Sciamma, raccontare la storia di un'amore negato e per esteso di una vita negata senza farne un gesto programmatico né lo scopo ultimo del film – al contrario del cinema del maschio bianco eterosessuale che racconta l'ingiustizia come altro da sé e quindi ha bisogno di renderla scopo del film, di fare il “dramma dell'ingiustizia”, sottolineando e spiegando l'esperienza altrui, oppressore che si appropria della storia dell'oppresso (pensiamo alla narrazione white saviour in Amistad di Steven Spielberg) – ma come elemento intrinseco di una storia raccontata da punto di vista femminile. Dove femminile non è inteso come caratteristica di genere, ma come frutto e parte integrante dell'esperienza femminile del mondo, dato che non siamo donne perché lo dice la genetica, siamo donne perché la nostra condizione di oppressione ci rende possibile vedere il mondo da un'altra posizione e questo Sciamma lo comprende perfettamente, concentrandosi su emozioni e non detti senza bisogno di spiegoni e stereotipi per fornire contesti e motivazioni che in quanto donne non possiamo non riconoscere come reali.

Il ruolo di Marianne come pittrice è contraltare a quello di Héloïse ma come complice, perché è lo sguardo della regista e dell'arte ridisegnata dalla female gaze, che guarda il proprio soggetto ma facendone appunto soggetto e non oggetto: un'artista interessata a ciò che ritrae non soltanto per reinterpretarlo con il proprio punto di vista, ma che ne condivide l'esperienza. Una donna che dipinge un'altra donna e attraverso di lei esprime i desideri e le speranze mancate, ma anche l'ingegno e l'ispirazione, di entrambe, tanto da farne partner artistica. Nel momento in cui Marianne e Héloïse concepiscono insieme il dipinto che racconta l'aborto di Sophie (lei stessa raccontata come artista, attraverso quel ricamo che a Sciamma bastano pochi frame per risemantizzare da lavoro femminile domestico a espressione creativa) si rompe anche il dualismo artista/musa e si supera l'ennesimo stereotipo creato dalla società patriarcale rendendo le donne ritratte parte attiva della creazione.

Céline Sciamma costruisce un film emotivo e intimo che usa la sincerità e il realismo come grimaldello per esprimere un messaggio femminista e rivoluzionario senza bisogno di forzare la mano su messaggi programmatico, scegliendo una storia d'amore che svela ogni ingiustizia nella sua momentanea perfezione, sovvertendo ogni stereotipo: da quello della musa passiva, all'amore come forma di conquista e possesso, fino al mito dello sguardo autoriale come filtro necessario per guardare a un film. Qui, lo sguardo autoriale è anche il nostro sguardo, che si commuove e si addolora insieme a Héloïse a teatro nell'ultima scena, dissolvendo ogni necessità di spiegare e lasciandoci spazio per sentire, come solo la vera arte può fare.

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