La prima volta che le aveva parlato, ad Auschwitz nel 1943, David Wisnia aveva capito subito che Helen Spitzer non era un’internata come tante. Zippi, la chiamavano così, era pulita, sempre in ordine. Indossava una giacchetta e profumava di buono. Aveva chiesto lei a un altro prigioniero di presentarle David. Era una strana figura nel campo di concentramento: una donna che non alloggiava nel settore femminile e che parlava con un internato uomo. Prima che Wisnia potesse rendersene conto, erano rimasti soli, tutti gli altri prigionieri spariti, e dopo aveva capito che non era stata una coincidenza. Avevano deciso di rivedersi la settimana seguente.

Al giorno stabilito David, come d’accordo, è andato alle baracche tra i forni crematori 4 e 5. Si è arrampicato in cima a una scala di fortuna fatta con centinaia di pacchi di indumenti dei prigionieri. Tra quelle pile Zippi aveva ricavato un po’ di spazio, grande appena per infilarcisi in due. Lei aveva 25 anni, lui 17. «Non sapevo niente di niente», ha ricordato di recente lui, che oggi ha 93 anni. «Mi ha insegnato tutto Zippi».

Tutti e due ebrei, e tutti e due prigionieri privilegiati ad Auschwitz. David all’inizio doveva raccogliere i cadaveri di coloro che si suicidavano lanciandosi sui fili elettrificati di recinzione, e trascinarli fino a una baracca. Poi i carcerieri nazisti hanno scoperto la sua bella voce e spesso gli chiedevano di intrattenerli e cantare per loro. Zippi aveva un ruolo più alto in grado: era la graphic designer del campo di concentramento. Sono diventati amanti, una volta al mese in quella loro tana. Sapevano di rischiare la vita e all’inizio avevano paura, ma ogni volta non vedevano l’ora di incontrarsi ancora.
David si sentiva speciale. «Lei aveva scelto proprio me». Non parlavano un granché. E quando lo facevano si raccontavano frammenti del loro passato. Il padre di David amava l’opera, era stato per lui che si era avvicinato al canto, era morto con il resto della famiglia nel ghetto di Varsavia. Anche a Zippi piaceva la musica, suonava il piano e il mandolino, e ha insegnato a David una canzone in ungherese. Sotto quei pacchi di indumenti, alcuni prigionieri restavano di guardia, pronti ad avvertire gli amanti se un ufficiale delle SS si stava avvicinando.

«Intorno c’era morte dappertutto. Eppure loro due pianificavano un futuro insieme»

Per qualche mese sono stati uno per l’altra una via di fuga, ma sapevano che quegli incontri non sarebbero durati a lungo. Intorno c’era morte dappertutto. Eppure loro due pianificavano un futuro insieme, fuori da Auschwitz.

Sarebbero stati separati, però avevano un piano per ricongiungersi a guerra finita. Ci sono voluti 72 anni. L’autunno scorso, un pomeriggio, David è lì che guarda delle vecchie fotografie nella sua casa di Levittown, la città della Pennsylvania che lo ha adottato e dove abita da 67 anni. Una volta al mese va nelle scuole o in qualche biblioteca a raccontare le storie atroci della guerra. «Siamo rimasti in pochi, noi che ne conosciamo i dettagli», dice. Non ha mai perso la passione per il canto, da decenni è cantore nella congregazione locale e in gennaio volerà con la famiglia ad Auschwitz, l’hanno invitato a esibirsi per il 75° anniversario della liberazione del campo di sterminio. Piano piano l’Olocausto sta svanendo dalla memoria collettiva, l’antisemitismo risolleva la testa e David sente sempre più l’urgenza di parlare del suo passato. È una grande svolta per un uomo che ha cercato per tutta la vita di non guardarsi indietro. Il figlio maggiore ha saputo solo quando era già un teenager che il padre non è nato in America (David ha fatto di tutto per perdere l’accento europeo). Sono stati figli e nipoti a convincerlo a raccontare. E piano piano lui ha cominciato ad aprirsi, lo hanno persuaso a parlare in pubblico. Nel 2015 ha pubblicato un memoir, One Voice, Two Lives: From Auschwitz Prisoner to 101st
Airborne Trooper
. Nel libro però ha cambiato il nome della sua amante ad Auschwitz, l’ha chiamata Rose. Il loro ricongiungimento comunque non è andato secondo i piani.

Zippi è stata una delle prime ebree ad arrivare ad Auschwitz, nel marzo 1942. Veniva dalla Slovacchia, aveva frequentato un istituto tecnico, ha sempre detto di essere stata la prima donna nella sua regione ad avere finito un apprendistato come graphic artist. Ad Auschwitz è arrivata insieme ad altre 2mila, tutte nubili.

L’hanno destinata a massacranti lavori di demolizione nel sottocampo di Birkenau. Era malnutrita e sempre malata, tifo, malaria, diarrea. È rimasta ai lavori forzati finché un camino le è crollato addosso e si è fatta male alla schiena. Allora, grazie alle sue conoscenze, al fatto che parlava il tedesco, alle sue competenze di graphic design e alla fortuna, ha ottenuto un lavoro d’ufficio.

Uno dei suoi compiti era mischiare della pittura rossa in polvere con della vernice lucida e dipingere una striscia verticale sulle uniformi delle prigioniere. Poi, come ha raccontato allo psicologo americano David Boder che nel 1946 ha raccolto le prime testimonianze dei sopravvissuti ai lager, l’hanno incaricata di registrare tutti i nuovi arrivi femminili al campo di sterminio.

Quando ha incontrato David Wisnia, Zippi divideva un ufficio con un’altra ebrea, si occupavano di organizzare le carte e i documenti del campo, lei disegnava anche i grafici di tutti quelli che ci lavoravano, dove, quanti, che cosa facevano. E più crescevano le sue responsabilità, più era libera di muoversi all’interno, qualche volta la autorizzavano perfino a brevi sortite fuori. Poteva farsi regolarmente la doccia e non doveva portare la fascia sul braccio. Conosceva a sufficienza tutto il campo per riuscire a costruirne un modello in 3D. I suoi privilegi le consentivano anche di corrispondere, attraverso un sistema di cartoline in codice, con l’unico fratello sopravvissuto in Slovacchia.

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Danna Singer, New York Times/Contrasto
La testimone: Helen “Zippi” Spitzer, scomparsa nel 2018 a 100 anni, com’era dopo la liberazione. La foto correda un libro che, attraverso la sua storia, riflette sui risvolti di una testimonianza dell’Olocausto.

Non ha mai collaborato con i nazisti né è mai stata una kapo. Al contrario, usava la sua posizione privilegiata per aiutare altri internati, la sua bravura a disegnare le serviva per manipolare le carte e cambiare i lavori e le baracche a cui venivano destinati. Secondo
Konrad Kwiet, professore alla University of Sydney - uno degli storici che l’ha intervistata per il libro collettivo Approaching an Auschwitz Survivor -, Zippi Spitzer aveva accesso ai report ufficiali del campo e ha passato informazioni a gruppi della resistenza.

A David Wisnia, che ormai cantava regolarmente per le guardie naziste, avevano affidato un nuovo compito in un edificio che le SS chiamavano La Sauna. Disinfettava i vestiti dei nuovi arrivati con lo Zyklon B, lo stesso micidiale pesticida usato nelle camere a gas.

Zippi aveva notato Wisnia alla Sauna e aveva cominciato ad andarci in visita. Una volta stabilito il contatto, dava del cibo agli internati che facevano la guardia per 30 minuti-un’ora, ogni volta che i due amanti si incontravano.

La loro storia d’amore è durata per diversi mesi. Un pomeriggio del ’44 hanno capito che quella sarebbe stata l’ultima volta che si arrampicavano nel loro rifugio segreto. I nazisti stavano evacuando il campo, portavano via gli ultimi prigionieri con le cosiddette “marce della morte” e distruggevano le prove dei loro crimini. Soltanto ad Auschwitz sono state uccise un milione e 100mila persone. David e Zippi sono sopravvissuti per oltre due anni, ma la maggior parte degli internati ha resistito solo pochi mesi.

«Lui ha deciso che si sarebbe lasciato l’Europa alle spalle. È diventato americano al 110%»

Appena i forni crematori sono stati demoliti, all’interno del lager si è diffusa la voce che i sovietici stavano avanzando. Presto sarebbe tutto finito. Così in quell’ultimo incontro hanno fatto un piano. Finita la guerra, si sarebbero incontrati a Varsavia. Era una promessa. David ha lasciato Auschwitz prima di Zippi, nel dicembre del ’44, l’hanno portato a Dachau con una marcia della morte. È stato durante quel trasferimento che ha visto un badile, è riuscito a colpire una SS e a scappare. Il giorno seguente, nascosto in un fienile, ha sentito arrivare quelle che lui pensava fossero truppe sovietiche. È uscito allo scoperto e si è messo a correre verso i carri armati, sperando in Dio. Erano americani.

Non riusciva a credere di avere avuto tanta fortuna. Da quando aveva dieci anni sognava di fare il cantante d’opera a New York. Aveva scritto una lettera al presidente Roosevelt chiedendogli il visto per studiare musica in America. Negli anni Trenta le due sorelle della mamma erano emigrate nel Bronx e David aveva imparato il loro indirizzo a memoria. Durante il suo calvario ad Auschwitz, quell’indirizzo era diventato per lui una specie di preghiera che gli indicava la via.

Ai soldati della 101ª Divisione aviotrasportata ha raccontato la sua storia nelle poche parole di inglese che conosceva, un po’ in tedesco, un po’ in yiddish e un po’ in polacco, e lo hanno adottato. Gli hanno dato da mangiare la famosa carne in scatola Spam, gli hanno dato una uniforme e una mitragliatrice, e gli hanno insegnato a usarla. E lui ha deciso che si sarebbe lasciato l’Europa per sempre alle spalle. «Sono diventato americano al 110%».

Essendo polacco non è mai potuto diventare a pieno titolo un soldato americano, ma dopo la guerra ha svolto vari compiti per l’esercito. Ha fatto l’interprete, confiscato armi e interrogato i tedeschi, ha partecipato alla liberazione delle città in Austria. A volte portava rifornimenti nel campo profughi di Feldafing. Da quando si è unito agli americani, non ha più pensato seriamente al piano di incontrarsi con Zippi a Varsavia. Il suo futuro è diventato l’America.

Lei è stata una degli ultimi vivi a lasciare il lager di Auschwitz. L’hanno mandata nel campo femminile di Ravensbrück e poi a nel sottocampo di Malchow, prima di essere evacuata con una marcia della morte. Da lì insieme a una compagna, strappando la striscia rossa che lei stessa aveva dipinto sulle uniformi, è scappata e si è unita alla folla dei locali in fuga. Dopo l’avanzata dell’Armata Rossa e la resa dei nazisti, ha raggiunto la casa della sua infanzia a Bratislava, in Slovacchia. I genitori e i fratelli non c’erano più, a eccezione di un fratello che si era appena sposato.

Atina Grossmann, professore alla Cooper Union di New York, uno degli storici che poi ha raccolto la sua testimonianza, ha detto che Zippi nel racconto del suo viaggio subito dopo la guerra è rimasta volutamente vaga. Ha accennato al contrabbando di ebrei al confine, attraverso un movimento clandestino, il Bricha, che aiutava i profughi a lasciare l’Europa dell’Est e raggiungere la Palestina. L’Europa brulicava di campi profughi. In Germania ne sono spuntati circa 500.

In mezzo a quel caos, Zippi ha raggiunto il primo campo per profughi ebrei nella Germania occupata dagli americani. Si chiamava Feldafing, nella primavera del 1945 ospitava almeno 4mila sopravvissuti, era lo stesso campo in cui David portava i rifornimenti. «Andavo fino a Feldafing, ma non avevo idea che lei fosse lì», ha raccontato. Arrivata nel settembre del ’45, poco dopo Zippi si è sposata. Con Erwin Tichauer, capo della polizia del campo e ufficiale per la sicurezza alle Nazioni Unite.

Ruoli che gli permettevano di lavorare a stretto contatto con i militari americani. Ancora una volta Zippi Spitzer, il cui cognome ora era Tichauer, si è ritrovava in una posizione privilegiata: nonostante fossero profughi, i Tichauer vivevano fuori dal campo.

Con il marito si è poi dedicata per tutta la vita a cause umanitarie. Hanno partecipato a missioni delle Nazioni Unite in Perù, in Bolivia, in Indonesia, in Australia. Alla fine si sono trasferiti in Texas, ad Austin, e poi nel 1967 a New York. Nel loro appartamento, circondata da libri sull’Olocausto, Zippi ha incontrato regolarmente gli storici della Shoah, ma non ha mai fatto conferenze in pubblico e ha sempre detestato l’idea di fare dell’Olocausto una professione. Gli studiosi a cui ha affidato la sua testimonianza sono poi diventati parte della sua famiglia. Il professore Konrad Kwiet, che tutti i venerdì l’ha sempre chiamata dall’Australia, ha detto che Helen Tichauer per lui è stata come una madre. Eppure a nessuno storico a cui ha descritto per ore gli orrori di Auschwitz, Helen Zippi Tichauer ha mai fatto il nome di David Wisnia.

Finita la guerra, David è venuto a sapere da un ex internato ad Auschwitz che lei era viva. In quel periodo lui partecipava alle attività dell’esercito americano, che era di base a Versailles, e lì è restato finché ha potuto emigrare negli Stati Uniti. È stato nel 1947, a un matrimonio, che ha conosciuto la sua futura moglie, Hope. Cinque anni dopo si sono trasferiti a Filadelfia. Un amico comune dei due ex amanti di Auschwitz gli ha detto che Zippi ora viveva a New York. A Hope, David aveva parlato di lei, finalmente avrebbe potuto chiederle se sapeva come mai lui era riuscito a sopravvivere per tutto quel tempo a Auschwitz.

Quel comune amico ha organizzato l’incontro. David ha guidato per due ore da Levittown, dove adesso abitava, a Manhattan e ha aspettato nella lobby di un hotel davanti a Central Park. «Non è mai arrivata. Poi ho saputo che ci aveva ripensato. Era sposata, aveva un marito».

Nel corso degli anni si è sempre tenuto informato sui Tichauer, tramite quell’amico comune. Nel frattempo la famiglia di David era cresciuta, aveva quattro figli e sei nipoti. Nel 2016 ha deciso di provare a ricontattare Zippi. Suo figlio, ora rabbino nella Reform Synagogue di Princeton, ha avviato per lui i contatti. Alla fine, lei ha detto che poteva andarla a trovare.

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Danna Singer/ New York Times / Contrasto
a casa David Wisnia, 93 ANNI, a Levittown, in Pennsylvania, dove abita da 67 anni. Sullo sfondo, sui gradini, uno dei suoi sei nipoti.

Così nell’agosto 2016, accompagnato da due nipoti, David si è rimesso in macchina. Durante il tragitto da Levittown a Manhattan è rimasto quasi sempre in silenzio. Non sapeva che cosa aspettarsi. Erano passati 72 anni dall’ultima volta che aveva visto la sua ex fidanzata. Tutto quello che sapeva era che lei non stava molto bene. Ha sempre sospettato di essere sopravvissuto grazie a lei e voleva sapere se era vero.

Arrivati nell’appartamento di Helen Zippi Tichauer, East Midtown Manhattan, David e i nipoti l’hanno trovata coricata in un letto d’ospedale, circondata da scaffali zeppi di libri. Suo marito era morto nel 1996 e lei era rimasta sola, senza figli. Costretta a letto, era sempre più sorda e ci vedeva sempre meno. Aveva una persona che l’aiutava, e il telefono era diventato il suo unico filo diretto con il mondo.

«David ha guidato per due ore fino a Manhattan e l'ha aspettata nella lobby di un hotel. Però non è mai arrivata»

All’inizio non lo ha riconosciuto. Allora David si è chinato e le si è avvicinato. «Ha spalancato gli occhi, come se fosse improvvisamente ringiovanita», ha raccontato uno dei nipoti, Avi, 37 anni. «Ci ha colto tutti di sorpresa».

Hanno cominciato a parlare fitto, in inglese, la loro comune lingua adottiva. «Davanti ai nipoti mi ha chiesto: “Hai detto a tua moglie che cosa abbiamo fatto?”. E io, ridendo e scuotendo la testa, le ho risposto: “Zippi!”».

David le ha raccontato dei suoi anni nell’esercito americano. Lei di suo marito e delle loro attività umanitarie. È rimasta meravigliata dell’inglese perfetto di lui. «My God, non avrei mai immaginato che ci saremmo rivisti, a New York poi».

L’incontro è durato un paio d’ore. E finalmente lui ha potuto farle quella domanda: è grazie a te se sono sopravvissuto tutto quel tempo ad Auschwitz?

Zippi ha alzato la mano, con le cinque dita ben distese e ad alta voce, con un forte accento slovacco: «Ti ho salvato cinque volte da brutti trasferimenti».«Lo sapevo», ha detto David ai nipoti. «È assolutamente incredibile, incredibile». E non era tutto. «Io ti ho aspettato», gli ha detto lei. Lui è rimasto spiazzato. Dopo essere scappata dalla marcia della morte, lei ha seguito alla lettera il loro piano, è andata a Varsavia e lo ha aspettato. Ma lui non è mai arrivato. «Ti amavo», gli ha detto sottovoce. «Anch’io», ha risposto lui. David e Zippi non si sono mai più visti. Lei è morta l’anno scorso, a cent’anni. In quel loro ultimo pomeriggio insieme, prima che lui se ne andasse, gli ha chiesto di cantare per lei. Lui le ha preso la mano e ha intonato la canzone ungherese che Zippi gli aveva insegnato ad Auschwitz. Voleva farle vedere che si ricordava tutte le parole.

© 2019 The New York Times Company -

Traduzione ed editing Rossella Venturi