Cosa lega un cantautore che ormai merita appieno la dicitura di "Maestro" come Vinicio Capossela, alla mina vagante della trap, Young Signorino? Nulla, ci si sentiva di dire con una certa tranquillità fino a pochi giorni fa, quando i due hanno dato alle stampe Peste+, versione remixata e rivisitata di La Peste, canzone di Capossela contenuta nel suo ultimo album Ballate per uomini e bestie.

youtubeView full post on Youtube

Capossela, per chi scrive, è saldamente legato all'adolescenza vissuta nel Sud esoterico e molto lontano dalle classifiche di giornali stranieri patinati, così come al debutto nell'età adulta, fatta di una sensazione costante di straniamento rispetto ad una realtà più prosaica e priva della poesia dell'adolescenza, vissuta a Milano, la stessa città nella quale l'autore –nato in Germania, ma con famiglia che arriva dall'Irpinia – vive, e, ci si immagina, scriva le sue più struggenti melodie sugli amori finiti, passati e mai dimenticati, dalla finestra del suo appartamento, affacciata su una Stazione Centrale bagnata dalla pioggia di Novembre. Quel monumento alla transitorietà, costruito in una mezcla di Liberty e Art dèco, legati insieme dal solido collante dell'architettura razionalista tipica degli Anni 30 del fascismo, vicino alla quale Capossela vive oggi, è sempre stato fondamentale nella sua scrittura: il più solido e fisico tra i non-luoghi, la stazione, dove si avvicendano arrivi e partenze, inizi e molto più spesso addii, ha fatto da proscenio idealizzato a molti dei suoi brani. L'altro topos, invece, più simbolico che geografico, è sempre stato il Sud, quello mistico ed incontrollabile della Ballata di San Vito, colonna sonora obbligata di qualunque Festa della Taranta – prima della edulcorazione turistica – animato da impulsi e riti primitivi, incantesimi e maledizioni, un po' come raccontava un altro uomo del Sud, Sergio Rubini, in L'anima gemella. Tutto ciò per raccontare come, nel corso di una carriera ormai quasi trentennale, il cantautore – che, ad incontrarlo, si potrebbe scambiarlo per un untore manzoniano, o ad un musicista di strada finito per caso su un veliero diretto in Sud America – si sia costruito una solida reputazione di autore a tutto tondo, sfuggendo le definizioni più semplici, per costruirsi una categoria a sé.

Alternative View - 66th Locarno Film Festivalpinterest
Vittorio Zunino Celotto//Getty Images
Vinicio Capossela al 66esimo Festival di Locarno

Dall'altro lato c'è Paolo Caputo, trapper 22enne di Cesena, in arte Young Signorino, scheggia impazzita di un genere che ha sin da subito, e saggiamente, imparato ad inserirsi nelle trame pubblicitarie e modaiole del mondo dei boomer, continuando a rivendicare il proprio essere "altro", e, quasi sempre, il proprio essere "contro". Achille Lauro è ormai personificazione del gender-neutral a cui piace truccarsi e sfidare gli stereotipi più arcaici legati alla mascolinità – però, per carità, di Gucci vestito – mentre Ghali è pop-idol riconosciuto – sinonimo, secondo una certa stampa, di un'italianità 3.0, giovanissima, consapevole, e nata nella feroce periferia milanese, ma con origini tunisine – capace, nello stesso momento di riempire palazzetti e fare da colonna sonora a spot di compagnie di telecomunicazioni, divenendo la "faccia presentabile" del genere. In questo panorama, Young Signorino non è mai rientrato. Ventidue anni, diversi ricoveri in clinica psichiatrica, tatuaggi sul viso alla maniera di Tekashi 6ix9ine – il rapper 24enne americano già in carcere per accuse di racket e affiliazione alla gang dei Nine Trey Gangsta Blood – non ha mai ricercato l'adesione o l'approvazione massificata. Straniante nell'aspetto, controverso per il suo essersi autoproclamato Figlio di Satana, un'ironia al limite tra provocazione e teatro dell'assurdo, è l'incarnazione fisica, più che simbolica, dell'"altro", del diverso, incapace di suscitare sentimenti di empatia per il suo essere geneticamente e orgogliosamente "altro". Eppure il primo incontro tra i due era stato voluto proprio da Capossela, che aveva invitato Young Signorino allo Sponz Fest 2019, il Festival irpino di cui il cantautore è direttore artistico, a denotare un interesse verso un altro essere umano che, come lui, fa categoria a sé. Intervistati per l'uscita di Peste+ da La Repubblica, Capossela ha infatti spiegato il brano, sinonimo de "La peste dell’odio in Rete, della delazione, della diffamazione, del linciaggio, dello squadrismo, dell’oscenità esibita, del circo massimo del like o dislike, del mascheramento, della fake news, delle virulenze epidemiche, ha per me in musica il suono dell’autotune, della trap dei nativi digitali. Volevo contaminare con questo suono il tema e lo svolgimento e così ho cercato l’artista che più stimo nella globosfera della rete contemporanea, il giovin signore Young Signorino». Remixato dal produttore FiloQ, rispetto al brano originale il diciannovenne ha aggiunto un ritornello cantilenante che entra in testa, e una parte rappata.

Nel video, che riprende le atmosfere esoteriche che Capossela ama, va in scena la celebrazione pagana della società dei like e dei selfie, che sparge la pestilenza, inconsistente e rarefatta eppure mortale, a colpi di scrolling selvaggi, linciaggi via social e hashtag "virali". Con una maschera da monatto, Capossela esamina Young Signorino, immobile di fronte a lui, come se si trovasse di fronte ad un fenomeno nuovo, eppure dotato di quella stessa forza primitiva della quale sono carichi certi suoi componimenti. E in effetti, come ha spiegato a La Repubblica, Capossela riconosce al giovane trapper una unicità: "Signorino è di una purezza disarmante. Un purissimo figlio di Satana, come candidamente afferma. Anzi è Candide lui stesso. È l’ultimo dei dadaisti. È primitivista, semplifica e semplificando offre forza alle parole".

Perché, in fondo, ruota sempre tutto intorno a loro: alle parole. A quelle che usiamo – sempre più polarizzate, prive di sfumature – e a come le usiamo – con la violenza dei social, priva dei filtri della buona educazione e del decoro, o anche solo della patina di ipocrisia, che si riserva alla vita reale. E forse, a volte, un approccio all'altro più primitivo – nel senso di reale, privo dello schermo nel quale ci si nasconde, grazie ai social – è l'unica via di fuga ad una realtà sempre più filtrata, e paradossalmente, meno respirabile.