La guerra è sempre stata l’evento più sbagliato possibile. La Seconda Guerra Mondiale, con l’aggiunta dell’Olocausto, ha raggiunto abissi così profondamente sbagliati che doverlo ribadire è quasi offensivo, ma utile, visto che la percezione della sua gravità rischia di sbiadire, rendendo necessari eventi come il Giorno della memoria ogni 27 gennaio. L’Olocausto ha un simbolo, una testimonial involontaria, ed è una ragazzina di nome Anna Frank che ha scritto il suo diario e non ha mai fatto in tempo a diventare una donna. Già prima che la guerra, con l’invenzione dei bombardamenti, coinvolgesse anche i civili, le donne in attesa degli uomini lontani dal fronte sono sempre state in balia della brutalità degli eventi e hanno dovuto fare l’impossibile per cavarsela e uscirne vive. Anche quelle celebri. Difficile, oggi, capire se la disinvoltura di Coco Chanel nel vendere bottiglie del suo n.5 indifferentemente agli ufficiali delle SS invasori a Parigi, e poi ai militari americani, non sia stata pura strategia di sopravvivenza.



Impossibile sapere se Marlene Dietrich avrebbe potuto criticare il nazismo e snobbare il corteggiamento di Adolf Hitler a lungo, prima che l’America se la portasse via con un contratto da sogno. Poi c’era chi non ancora famosa come Audrey Hepburn, durante l’invasione dell’Olanda, da ragazzina, imparò la misura più estrema per sopravvivere: non pensare mai al cibo che tanto non c’era o non bastava per tutti. Da quella modalità non uscì mai più, coltivando l’inappetenza per tutta la vita. Ognuna ha fatto ricorso ai mezzi che la vita le metteva a disposizione per poterlo poi raccontare. Ma se oltre che donna eri anche ebrea né la fama né la ricchezza - o per lo meno l’essere benestante -, né i titoli nobiliari avrebbe potuto metterti al riparo dal tuo destino. La lista di famose rimaste invischiata nella follia delle leggi razziali è lunga. Qualcuna si è nascosta, qualcuna è scappata, qualcuna ha dovuto soccombere.

Potevi essere membro di una delle famiglie più leggendarie della storia. Élisabeth de Rothschild era nata col nome Élisabeth Pelletier de Chambure a Parigi, nel 1902, da una famiglia cattolica e a 21 anni era già sposata con un aristocratico belga. Il matrimonio durò una decina di anni ma si risposò subito con Philippe, Barone di Rothschild e membro della facoltosa famiglia di banchieri. Per qualsiasi genitore, questo sarebbe stato il matrimonio che mette al sicuro la propria figlia. Invece fu la causa di tutti i suoi mali. Philippe era ebreo e per sposarlo Élisabeth, che era sinceramente innamorata e ricambiata, si convertì al giudaismo. Il loto matrimonio fu celebrato da Julien Weill, il grande rabbino di Parigi. Il loro è stato un matrimonio di passione ma poi anche di litigi appassionati, costellato da grandi sfortune quando, come un presagio, dopo una figlia sana ebbero un figlio deforme che morì quasi subito. Si separarono e lei recuperò il nome da nubile. Ma quando i tedeschi occuparono la Francia lei risultava ancora ebrea. Élisabeth e l’ex marito furono arrestati dal governo di Vichy, le proprietà e i vigneti di lui confiscati. Rilasciati, cercarono di fuggire separatamente. Lui approdò in Inghilterra, per raggiungere Charles de Gaulle. A lei andò male. La leggenda vuole che, una volta, trovandosi seduta vicino alla moglie dell’ambasciatore tedesco Heinrich Otto Abetz a una proiezione della collezione 1941 di Elsa Schiaparelli si fosse alzata sdegnata e che quella se la fosse legata al dito. O più semplicemente, al confine si accorsero che il suo permesso di espatrio era contraffatto. Finì deportata a Ravensbrück, vicino Berlino, dove morì nel 1945. Fu l’unica Rothschild a soccombere all'Olocausto.



Potevi essere una scrittrice ebrea, come Irène Némirowsky. Bisogna immaginare, per un attimo, di essere un’ex bambina prodigio, di laurearsi con lode alla Sorbona e di pubblicare già a 18 anni articoli e novelle ben pagati, e di quante aspettative nella vita ti dia tutto questo. Irène, figlia di ebrei ucraini fuggiti a Parigi dal regime sovietico e dai pogrom, non aveva ancora compiuto trent’anni che già i critici la tenevano in palmo di mano da tempo. Quando l’editore che aveva letto il manoscritto della sua opera prima, David Golder, l’ha convocata per firmarne il contratto della pubblicazione, credeva che quella giovane donna spigliata stesse facendo da prestanome per qualche scrittore (uomo) che voleva restare anonimo. Quando Hitler diventa cancelliere nel ’33, lei è ricoverata per curare l’asma (che la tormenta) ed esprime la sua preoccupazione all’infermiera. Tuttavia, coltiva un cauto ottimismo o non riesce a ribellarsi all’ineluttabilità. Prende la cittadinanza francese e si converte col marito e le due figlie al cattolicesimo, si mostra anche critica nei confronti degli ebrei passando quasi per antisemita, sperando che questo basti a metterla al sicuro. Lei e il marito lo sperano tanto da non fuggire in Svizzera, quando le cose si stanno mettendo davvero male. Con il varo delle leggi razziali, Irène Némirowsky ha perso tutto, i diritti d’autore delle opere pubblicate e il diritto di pubblicarne altre. Sa che prima o poi arriverà il suo momento ma continua a scrivere. Pagine e pagine che non avremmo mai letto, se non avesse stipato i manoscritti in una valigia affidata alle figlie, nascoste sotto falso nome. Una mattina di luglio del 1942 qualcuno andò a prendere Irène Némirowsky e la caricò su un treno per Auschwitz. È così che una delle più grandi prosatrici della storia, cagionevole di salute e debilitata, non sopravvisse in quell’inferno più di un mese. Il 17 agosto era già cenere. Un oltraggio all’umanità.


Potevi essere una futura attrice, come Franca Valeri. Da ragazzina Franca viveva col mito e la speranza della fine del fascismo, che oggi definisce con un eufemismo “una situazione noiosa”. Ma temeva anche lo spettro della futura catastrofe che poi è arrivata, la guerra. Ancora si rammarica che nella sua Milano in cui è nata, figlia di una buona famiglia della borghesia, la guerra sia finita oltre un anno dopo rispetto a Roma, e che la sua casa familiare, bombardata, sia crollata. Il guaio più grande per la giovane Franca, che frequentava il famoso liceo Parini e studiava già per realizzare il sogno di fare l’attrice, era però quello di avere un padre ebreo. Quando nel 1938 entrano in vigore anche in Italia le leggi razziali lei aveva 18 anni. La sua famiglia viene privata di quasi tutti i diritti e di conseguenza anche di molti dei loro beni. Non potendo più pagarne i compensi, devono rinunciare alle domestiche alle quali Franca era molto affezionata perché vivevano con loro da quando era bambina. Quando suo padre e suo fratello fuggono in Svizzera lei e la madre, cattolica, restano a Milano e vanno a vivere in una casa pericolante per i bombardamenti. Valeria, figlia di un ebreo, avrebbe potuto finire deportata se un impiegato dell’anagrafe non le avesse confezionato una carta di identità falsa in cui risultava figlia illegittima di un’altra donna. Così, fino alla fine della guerra, ha potuto continuare a dedicarsi alla sua passione, ereditata da Fanny Norsa un'attrice vissuta nel XVIII secolo sua antenata, e a regalare agli italiani tanti personaggi che hanno sdoganato l’ironia femminile. Un oltraggio sventato.

Potevi essere un genio, moglie di un ebreo e madre dei suoi figli. Mileva Marić non era ebrea: lo erano i suoi figli per metà. Li aveva avuti con Albert Einstein, che era ebreo. Mileva era stata una bambina dotata e con la fortuna di avere un padre che invece di intimarle di pensare solo a fare la moglie e la madre ne assecondava il talento, lasciandola stare sui libri fino a studiare fisica al Politecnico di Zurigo, al quale aveva avuto accesso dopo un esame di matematica e geometria. Era l’unica donna della classe e uno dei suoi compagni era il futuro formulatore della teoria della relatività. Erano tempi in cui alle donne non era neanche concessa l’iscrizione a molti atenei, per cui si ritiene che abbia contribuito molto al lavoro del marito senza avere il diritto di metterci il nome. Insieme ebbero una figlia, Lieserl, e due figli, Hans Albert e Eduard, prima che lui la tradisse con una cugina e finisse tutto in un divorzio. Lei rimase a vivere in Svizzera, lui si trasferì in Germania. Con l’avanzata delle truppe naziste la Svizzera era accerchiata e Mileva temeva per i propri figli. Faticosamente si fece mandare dalla Serbia, di cui era originaria, i documenti che attestavano la sua appartenenza al culto cattolico, ma anche i certificati di battesimo dei figli, un lasciapassare verso il resto della loro vita. L’altro, Hans Albert, era volato oltreoceano nel 1933 al seguito del padre. Mileva Marić rimase tenacemente alla difesa dei figli completamente isolata dal mondo perché l’accerchiamento del Terzo Reich non lasciava filtrare notizie. Non sapeva nemmeno che fine avesse fatto Hans Albert. Solo nel 1944 riuscì a ricevere una lettera dell’ex marito Albert. Era ridotta al lumicino, si era completamente dedicata al figlio minore, malato psichiatrico, e avevano vissuto nell’indigenza. Mileva ce l’aveva fatta, l’aveva protetto dal rischio di finire in mano ai collaborazionisti per essere spedito chissà dove, ebreo e disabile, anche se un anno dopo la fine della guerra il ragazzo peggiorò. Mileva trascorse gli ultimi anni della sua vita prendendosi cura di lui finché un ictus non la stroncò nel 1948. Le richieste postume di assegnarle una laurea ad honorem non sono mai state accolte.




Potevi essere una sportiva di successo. Come Nelly Neppach, di Francoforte sul Meno, classe 1898, che aveva vinto il suo primo titolo a tennis nel 1910 a soli 12 anni. E poi, da lì, una vittoria dopo l’altra, nazionali e in Francia. Ma era ebrea. Nel 1933, con la salita al potere del partito nazista lasciò spontaneamente la federazione del Tennis Borussia Berlin, probabilmente per non subire l'umiliazione di venire espulsa come stava accadendo a tanti sportivi ebrei. Di lì a poco, infatti, l’annuncio ufficiale che i giocatori di tennis “non ariani” non avrebbero più potuto giocare ai tornei internazionali. Immaginiamo di dover dire addio a tutti i nostri sogni, di gettare alle ortiche anni di allenamenti. Neppach cadde nella depressione immediatamente, di fronte alla crescente discriminazione e persecuzione del popolo ebraico in Germania, e di fronte alla prospettiva di non poter più gareggiare. Nella notte fra il 7 e l’8 maggio dello stesso anno si tolse la vita nel suo appartamento a Berlino assumendo una dose letale di sonniferi Barbital e inalando gas cittadino. Ora sulla sua casa di Nachodstraße 22, a Berlino una lapide la ricorda, e fa riflettere su quante vittorie sono state strappate a lei e allo sport.

Potevi essere Liliane Nahmias, mamma di Diane Von Furstenberg. Anche lei come Élisabeth de Rothschild era finita nel campo di concentramento di Ravensbrück. Ma prima subì la Death March, il trasferimento forzato nel gennaio del 1945 che le SS imposero a 60mila prigionieri quando le truppe sovietiche si stavano avvicinando ad Auschwitz. Quando nel 1945 gli Alleati andarono a liberare il campo e i suoi prigionieri Liliane pesava 23 chili. Diciotto mesi dopo era già incinta di un altro deportato moldavo ebreo, Leon Halfin, e volle portare avanti la gravidanza nonostante fosse così debilitata che i medici avrebbero voluto farla abortire. Nacque Diane.

Potevi essere un’attrice e scrittrice francese, come Fanny Marette, entrare a far parte della resistenza contro il nazismo, finire per questo in un campo di concentramento e riuscire in quello che a Irène Némirowsky non riuscì: raccontare poi la tua storia in J'étais le numero 47.177 - Journal d'une comédienne déportée. Si salvò per pochissimo dalla camera a gas, riuscì a evadere dal lager di Ravensbruck, marciò per settimane in fuga vestita di poco e con il fango fino alle ginocchia, insieme ad altre compagne del campo. Finché non arrivò in Francia e si salvò. Potevi essere Anna Freud, figlia del padre della psicanalisi, che nel 1938 fu costretta a fuggire da Vienna inseguita dalla persecuzione razziale, e riprendere a Londra la pratica psicoanalitica, il lavoro pionieristico nella psicologia infantile, e permettere la fondazione del Centro nazionale per bambini e famiglie Anna Freud. Per fortuna.

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Anna Freud


Potevi essere Hannah Arendt, che a causa dei suoi studi sulla propaganda antisemita fu denunciata alla Gestapo, imprigionata e rilasciata. Non aspettò altri guai. Fuggì in Cecoslovacchia, in Svizzera poi a Parigi, dove aiutava i giovani ebrei a emigrare in Palestina. Quando la Germania invase la Francia nel 1940 fuggì ancora in Portogallo, e infine negli Stati Uniti. Per poi assistere nel 1961 al processo contro il nazista Adolf Eichmann e raccontarlo nel saggio La banalità del male. Potevi essere Madeleine Albright, nascere ebrea in Cecoslovacchia, crescere da cattolica perché i tuoi genitori vogliono metterti al sicuro, e per evitare che tu ti tradisca ingenuamente, neanche ti dicono le tue vere origini ebraiche fino a dopo la guerra quando ormai, per sicurezza, tutta la famiglia è ormai fuggita prima in Uk e poi Stati Uniti. E lì, un giorno, sarai Segretaria di Stato. Potevi essere chiunque. Purché tutto questo non si ripeta mai più.