Kobe Bryant era un ragazzo come me, sogni grandi e uno strano accento straniero che metteva sul chi vive chi gli passava accanto. A 19 anni giocava a basket già come un vecchio che sa tutti i trucchi, ma per gli americani non era ancora abbastanza. Qualche volta, alla fine delle partite, si fermava a parlare col cronista sognatore, perché poteva farlo in italiano, la sua lingua fino ai 15 anni di età. Dovevo sembrargli un posto sicuro e riscaldato bene. Una sera, dopo una partita ai tempi in cui era ancora solo una promessa col nome di una bistecca giapponese, mi spiegò il suo conflitto: “In Italia ero diverso da tutti. L’unico nero in circolazione. Mi sono adattato in continuazione per non essere escluso. Dico grazie all’Italia, perché quando sono tornato negli Usa, di nuovo, ero diverso da tutti. Con questo strano accento e le movenze di uno che ha imparato il basket chissà dove. Ho ricominciato dai campetti di Filadelfia per non rimanere indietro, ho messo la faccia dura per sembrare intimidatorio e sentirmi come gli altri. Dovevo farmi rispettare.

Ogni giorno devo fare qualcosa per farmi rispettare"

Kobe era tallonato ferocemente dai propri sogni, dalla voglia di essere il numero uno. Nessuno gli perdonava di aver saltato l’Università per entrare tra i professionisti. Non garbava neppure che da ragazzino si fosse perso le sfide ruvide nei campetti di qualche sobborgo. Quando in una sola giornata, rilasciò un’intervista in italiano e una in francese, il Los Angeles Times decise fosse materia buona per scriverci un pezzo. Non mi è ancora chiaro se fosse per encomiarlo o per rimarcare le differenze col resto del branco.

Per Kobe vincere era il solo linguaggio capace di tradurre quell’urgenza di rispetto. Non solo, doveva riuscirci il più rapidamente possibile. Poco dopo quella nostra conversazione, a 21 anni, conquistò il titolo NBA, che è un po’ come tappare la bocca al mondo mentre tu ci sali sopra. L’ho seguito per quasi 15 anni, ne ho osservato la trasformazione da “straniero” in patria, in ragazzo from the hood, con le mossette, le catene d’oro, i tatuaggi e lo slang dei fratelli neri. C’è riuscito soffrendo, lesinando i sorrisi all’inizio, quasi rabbuiato dalla ricerca di un’identità sua. Un canestro dopo l’altro, un contratto di sponsorizzazione e poi uno ancora, sempre veloce e in contropiede.

Quella baruffa interiore è stata la sua benzina

Ci incrociavamo spesso alle partite, distaccati, però ci si vedeva. Una volta per un breve viaggio assieme in ascensore allo Staple Center di Los Angeles. Non era più tempo di confessioni, eppure con lo sguardo ti beccava come un pallone vagante da agguantare, sempre attento a tutto. “Ehi come stai? Tutto bene?” mi chiedeva col suo italiano adesso americanizzato, senza aspettare la risposta. Forse voleva controllare a che punto stessi coi miei di sogni, ragazzo diverso pure io, piovuto in America a cercare chissà quale titolo mondiale. L’ultima volta che ci ho parlato è stato Inglewood, quartiere nero a due passi dall’aeroporto di Los Angeles. “Cinque minuti massimo”, mi disse l’addetto delle public relations.

Kobe rimase con me mezz'ora.

Era forse l’ultimo anno di carriera, il suo italiano come le sue ginocchia erano ormai quasi completamente dilapidati. Mi parlò di sfide nuove, non gli sarebbe dispiaciuto esplorare lo show business, investire magari proprio in Italia. Andava di fretta, come sempre. Lo aspettava fuori un elicottero, perché, spiegava, “con la schiena che mi ritrovo, mica posso stare seduto due ore nel traffico di Los Angeles”. Sempre così, a tutta birra. Come domenica mattina, a 300 all’ora contro una montagna. Qualcosa mi dice che nel suo animo, lo avesse sempre saputo.

Per diventare diversamente immenso, gli era stato concesso un tempo limitato. Missione compiuta.