Nel bel mezzo di questa breve e deludente Award Season, i cui risultati sono già davanti agli occhi di tutti, ho ritrovato la magia del cinema indipendente in un paesino di 10.000 persone. A Park City, Utah, U.S.A., al Sundance 2020, l’esperienza-festival è ridotta all’osso per praticità. Non ci sono i motoscafi di lusso di Venezia o la pomposa montée des marches di Cannes. Si cammina con gli scarponcini ai piedi guardando a terra per non scivolare sul ghiaccio che si riforma ogni notte. La sera si usa regolarmente la funzione ‘torcia’ del cellulare per farsi vedere dagli autisti degli shuttle che girano per la valle 24 ore su 24. Alcuni film si guardano nella palestra della scuola superiore locale o nell’auditorium. La cosa più glamorous che si è vista è stata il muro di poliziotti che accompagnava Hillary Clinton alla presentazione del suo documentario Hillary, roba che nemmeno la security di Taylor Swift (anche lei presente con un documentario su se stessa, Miss Americana). Non mancano feste private, vip e lounge esclusivi, ma se dobbiamo dirla tutta alle feste ci vanno i produttori per piazzare i film invenduti, i vip la sera si rintanano negli chalet vista valle, e i lounge sono solo dei tendoni riscaldati.

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Le energie (e le calorie) vengono spese per combattere le intemperie e per dare visibilità a un selezionassimo gruppo di circa 100 inoffensivi film indipendenti che potrebbero rivelarsi capolavori internazionali. Una squadra di 2.600 volontari, perennemente infreddoliti ma con la gentilezza inconfondibile del Pacific Northwest, controllano che nessuno porti armi in sala o cerchi di registrare i film (enfasi ahimè sulle armi). Il pubblico pagante, seppur vario, è sempre rispettoso e ben disposto. Considerando che il biglietto per una sola proiezione costa tra i 65 e i 75 dollari, nessuno si permetterebbe di mangiare nachos o usare Whatsapp.

Ho visto film in teatri perennemente sold out seduta accanto a cinefili in vacanza, critici freelancer, nomi noti di Film Twitter, ricchi imprenditori che alternavano proiezioni a giri con il piperino (sì, l’aereo), signore locali rigorosamente in piumino e borsa di Goyard. Non volava mai una mosca. Il fine settimana invece sono arrivate le ventenni dalla suburbia di Salt Lake City e con loro il caos ma anche una ventata di euforia. Sembrano la variante local - ovvero mormona - del Christian Girl Autumn meme che impazzava la scorsa estate: stivaletti in pelle, giri su giri di sciarpe al collo, boccoli biondi e rigidissimi freschi di piega. Aggiungere all’equazione altre borse di Goyard perché siamo tutte figlie delle nostre madri.

The IMDb Studio At Acura Festival Village On Location At The 2020 Sundance Film Festival – Day 2pinterest
Rich Polk//Getty Images

Parlare dei film visti anziché del contesto è più complicato. “Festival High” è uno stato della mente tipico dei festival, dove la quantità di ore passate al buio a guardare film dalle tematiche più diverse mista al desiderio di scoprire il nuovo Wes Anderson prima di tutti gli altri annebbia ogni capacità di giudizio critico. Si è riso (Kajillionaire), si è pianto (Minari), si è applaudito (Promising Young Woman). Certo, alcuni film si sono rivelati imperfetti, ma nessun film era inutile o senz’anima.

2020 Sundance Film Festival - "Four Good Days" Premierepinterest
George Pimentel//Getty Images
Mila Kunis, Robert Redford, Glenn Close e Ashton Kutcher

In macchina verso casa ho ripensato alla seconda stagione di You su Netflix. In un episodio Forty, inconcludente ma ambizioso amico del protagonista-dalla-voce-da-ASMR Joe, nel bel mezzo di un rito di buon auspicio prega ad alta voce, con convinzione e senza vergogna: “Farò un film che presenterò al Sundance nel 2020 al Teatro Eccles. Di venerdì sera. Poi sarà un successo ai Gotham Awards e vincerà due, no, tre Indie Spirit Award. Fanculo gli Oscar”.