Dream big, or dream safe? La vera sfida di queste primarie democratiche americane non è sulle idee, perché il fatto che le idee più di sinistra abbiano “bucato” anche nell’elettorato più moderato è ormai un fatto, che si può dedurre facilmente dal tono della lunga serie di dibattiti, dalla centralità di Medicare For All nelle campagne, dai numeri sempre in crescita di Sanders nei sondaggi.

La vera sfida, ora, si chiama electability ed è un argomento così volatile, così soggettivo e così poco scientifico da dare spazio a qualsiasi teoria e legittimare ogni tipo di affermazione partisan.

In passato i dubbi sull’electability e sulle potenzialità dei candidati venivano non dico risolti, ma comunque messi a confronto con i numeri nel Caucus dell’Iowa, il primo turno di votazione: ma quest’anno in Iowa le cose sono andate male, persino peggio del previsto.

Si sa che Iowa come primo Caucus è in discussione da anni. Si rifiutano di abbandonare i loro metodi e le loro tradizioni (si vota per alzata di mano, si fa tutto a voce praticamente contrattando, si può cambiare candidato in seconda battuta insomma un gran caos, anche se tutto sommato divertente) sono considerati uno stato rurale non rappresentativo degli USA e sono incalzati, per subentrare come primo caucus, in primis dalla Florida. Anche nel 2012, nei caucus repubblicani, c’erano stai malfunzionamento nel sistema di voto e nel 2016 i sostenitori di Sanders avevano messo in luce varie magagne che, in teoria, si dovevano sistemare con questa nuova tecnica di votazione in cui il sistema di reportistica doveva essere più affidabile: non più solo il conteggio dei delegati da ciascun precinct, ma il report dei numeri di quante persone hanno supportato ciascun candidato nel primo e nel secondo ballottaggio - quindi tre set di numeri anziché uno solo. E invece, la app per reportare i voti pare sia in qualche modo crashata, con i voti dei delegati inviati al partito che non corrispondono ai numeri dei votanti. E ci vorrà probabilmente un giorno intero per capire come sono davvero andate le cose e avere risultati certi.

Tutto questo, per ora ci dice soltanto che l’era dei caucus dell’Iowa potrebbe essere ingloriosamente giunta alla fine, spezzando una tradizione su cui i dubbi erano già tantissimi.

Però i risultati a disposizione parlano già di una corsa a 3 fra Bernie Sanders, Pete Buttigieg ed Elizabeth Warren con Joe Biden (in teoria, il favorito) quarto e molto indietro rispetto a Sanders e Buttigieg, di un buon risultato di Amy Klobuchar e dell’eclissi parziale molto prevedibile degli altri, escluso Bloomberg che aspetterà il Super Tuesday per presentarsi.

Questo vuol dire probabilmente poco in termini di influenza sulla campagna presidenziale, ma tantissimo in termini di confusione nelle primarie democratiche, perché lascerebbe spazio ad almeno due candidati che potrebbero dichiararsi vittoriosi (se non in termini assoluti, almeno di risultato relativo, e Buttigieg ne ha già approfittato). Chiaramente, questo può influenzare le opinioni e settare un panorama ancora più confuso di prima, in linea con le peggiori aspettative degli analisti politici American.

Siamo di fronte a uno scenario senza precedenti ed è molto difficile pensare di poterne prevedere le conseguenze: forse i Caucus successivi e il Super Tuesday rimetteranno a posto le cose o forse il caos peggiorerà, di sicuro siamo di fronte a un sistema che con questo numero di candidature contribuisce a confondere le idee agli elettori e mandare messaggi contraddittori - se no appunto che Biden è in caduta libera.

Il risultato di Buttigieg non è una sorpresa enorme in termini assoluti (l’elettorato Iowa è bianco - nei sondaggi un dato di 9 su 10 - e tradizionalmente moderato) ma conta appunto in termini di definizione di un’evoluzione di questo elettorato “di centro”, che se fossero confermati i risultati si rivelerebbe meno ancorato al partito e alla tradizione votando un uomo fuori dal sistema, che finora aveva fatto solo il sindaco, molto giovane e dichiaratamente gay.

Se Buttigieg battesse Sanders, anche di poco, potrebbe anche rafforzare la sua narrativa per cui serve un moderato per battere Trump, un pragmatista che sappia parlare agli indecisi, ovviamente opposta a quella di Sanders che ritiene che sia necessario qualcuno che emozioni la base e porti al voto giovani e minoranze.

Tutto questo ovviamente se Elizabeth Warren risultasse davvero molto distante dai primi due, perché se invece davvero ci trovassimo con uno scenario a tre - Sanders - Buttigieg - Warren -, e questo scenario fosse confermato successivamente, diventerebbe difficilissimo per ciascuno di loro approfittare di quella che come dicevamo è la principale funzione del caucus dell’Iowa: farsi prendere sul serio come candidato, dimostrare la propria electability attraverso i numeri. Se i numeri non sono chiari, ognuno può inventarsi uno storytelling per raccontarli a proprio favore e argomentare per la propria versione di electability.

Electability, per Biden e Buttigieg (e Klobuchar), è infatti un concetto che coincide con l’essere appealing alla maggioranza dei votanti, calcolata sull’idea che questa maggioranza sia necessariamente moderata, la classica marea di indecisi tra Repubblicani e Democratici che in passato ha determinato in USA un’alternanza pressoché immancabile delle due parti alla Presidenza e al Congresso.

Il problema legato a questa idea è stato però fin qui capire se questa fantomatica maggioranza moderata esistesse davvero nei numeri e avesse un’influenza sul voto presidenziale: la già citata polarizzazione delle posizioni e l’elezione nel 2016 di un candidato che era “a different kind of Republican” fanno pensare esattamente il contrario, ovvero che per battere Trump non serva un candidato ben inserito nel sistema come Biden - la sconfitta di Clinton brucia ancora, in questo senso - ma un nuovo tipo di Democratico, capace di introdurre un diverso paradigma del fare politica e catturare gli indecisi non con un compromesso, ma con un deciso cambio di direzione.

Queste premesse sono quelle più care a Warren e Sanders: Bernie è senz’altro un diverso genere di candidato, socialista autoproclamato e abbastanza fuori dal sistema (nonostante sia in politica da decenni) da comunicare un senso di scossa e novità appetibile sia per chi cerca un reale cambiamento nel paese sia per quell’elettore medio che vuole genericamente “qualcosa di diverso”. In più, Sanders è il candidato che per personalità e fanbase somiglia di più a Trump, quasi fosse un suo gemello speculare con metodi e dinamiche simili, ma idee opposte; entrambi sono sostenuti da un tifo sfegatato più emotivo che concreto, entrambi hanno costruito nel tempo un’immagine da duri, ma mentre Trump è letteralmente un bullo, Sanders usa ironia e intelligenza per colpire con la stessa forza.

Per Elizabeth Warren invece la discussione sull’electability non dipende solo dalle idee (anzi, in uno scenario a 3 sarebbe la candidata ideale per acchiappare un elettorato moderato senza scontentare troppo quello più a sinistra) e dalla personalità, ma soprattutto dal genere: il bias che impedisce a una donna di essere presa sul serio come candidata presidenziale è un fatto innegabile e questo ha senz’altro inciso sulla prestazione di Warren nei sondaggi a lungo termine. In più, Warren è un compromesso che i sandersiani di ferro - pur essendo Bernie amico e alleato di Warren - tendono a rigettare, perché è una progressista decisa a mettere un freno al capitalismo e avviare una serie di riforme fondamentali, ma senza dichiararsi apertamente socialista.

Il cambiamento di Warren è un cambiamento radicale NEL sistema, lontano dal sogno di una rivoluzione che racconta Sanders ma a conti fatti vicinissimo alle sue istanze pratiche (con una notevole differenza nella posizione sul controllo delle armi, che Warren appoggia pienamente ma su cui Sanders è più cauto), che si avvicina nelle modalità al programma puntuale e preciso di Buttigieg. Sulla carta, il perfetto compromesso tra i due ma un gap di genere che potrebbe impedire di farne il terzo litigante che riesce ad averla vinta sugli altri due.

Perché su una cosa tutti sono d’accordo: che Trump fa paura a tutti coloro che non l’hanno votato e che per quasi tutti gli elettori evitarne la rielezione è uno degli argomenti più sentiti. Il COME evitarne la rielezione è però una risposta che varia da elettore a elettore, influenzata non solo dalle personalità dei vari candidati (e quindi, dalla loro capacità di “tener testa” a Trump in un dibattito) ma anche dallo loro solidità sulle singole issues che sostengono e dal loro passato persino personale. L’unica vera certezza è che Trump ci andrà pesantissimo con chiunque esca dalle primarie come candidato e che ognuno di loro ha almeno un punto debole politico o mediatico che potrebbe fornirgli appiglio.

E se queste primarie non forniranno una base solida in termine di numeri al candidato presidenziale allora, sì, le sorti delle elezioni potrebbero risentirne.