È ancora una bambina. Wafaa ha appena undici anni, ma sa già che la felicità è una piccola cosa, nascosta nella pace di ogni giorno. E che la bellezza non è nel viso ma nella luce del cuore. Prima di arrivare a tanta consapevolezza però, ha dovuto imparare cosa vuol dire morire. Una mattina di primavera giocava a inseguire i suoi amici nel giardino di casa. Nell’aria si respirava l’odore acre della guerra. E nel cielo, oltre le nuvole, passavano gli aerei. Era tutto normale per chi come lei era cresciuta tra le vie di Aleppo, in un conflitto che ha quasi la sua stessa età. Nessuno fece caso al rumore dei jet che faceva tremare l’aria, anche perché la sirena che sempre annunciava i bombardamenti, non suonava. Fu un sibilo a congelare ogni movimento, a spingere i bambini a guardare in alto. Poi un boato e il cielo si riempì di scintille. In un baleno il gioco a rimpiattino si trasformò in fuga, sotto una pioggia di bombe. Le case crollavano, la terra tremava e Wafaa iniziò a scappare. «Non sapevo dove andare. Veniva giù tutto. Non c’era tempo neppure per piangere. Chiamavo la mamma e correvo», racconta, aprendosi a quel sorriso dei forti che inghiottisce la paura, mentre una lacrima le riga il volto, sulla pelle tesa dalle cicatrici.

In quel pandemonio, il destino la volle vicino a un bidone di nafta che, colpito da una bomba, le esplose addosso. «Ardevo, e gridavo. Ero solo fuoco, fino a quando non ho incontrato le braccia di mia madre, che mi hanno avvolto in una coperta», dice. Raccontando quel momento la voce di Wafaa si interrompe per cercare lo sguardo della madre che adesso le siede a fianco, nella casa di accoglienza che le ospita a Roma. «Mamma, cosa è successo dopo?». La madre Aeda colma il vuoto della memoria ricordando la disperazione, il primo medico che le ha strappato le vesti squagliate sulla carne e il dolore di Wafaa che la fece svenire. Poi la fortuna di un convoglio umanitario, il viaggio verso Malatia, in Turchia. L’ospedale e il coma. Le ustioni avevano reso Wafaa irriconoscibile e nessuno sapeva dire neppure se sarebbe sopravvissuta.

«Dicevano che ero diventata cieca», riprende adesso lei, con l’agitazione di chi sta per raccontare il momento più eccitante della storia. «Invece una sera, in un attimo di lucidità, ho visto la mamma e ho detto che le stava bene quel vestito rosso che indossava. Lei per poco non sveniva dall’emozione». I medici non credettero a quell’episodio, scambiandolo per una coincidenza tra i deliri della febbre, ma le lacrime della madre unite alla sua tenacia, permisero di attivare una catena umanitaria che dall’ospedale nella periferia turca ha portato Wafaa fino a Roma, alla fine del 2017. La Chiesa le ha offerto un tetto, la comunità siriana i vestiti e l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù le ha messo a disposizione un’équipe medica.

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Anna Catalano

Wafaa, 11 anni, è arrivata a Roma alla fine del 2017. Qui è nei corridoi delle medie (che ha iniziato a settembre) dell’istituto comprensivo Virgilio. Ha scelto il violino come strumento musicale e la scuola glielo ha messo a disposizione per le lezioni.

«Sai, ero bella prima dell’esplosione», racconta, con una tenerezza che stringe il cuore. «Ma quando sono arrivata in Italia il mio aspetto era mostruoso. Lo leggevo negli occhi di chi incontravo e lo vedevo nello specchio, quando non riuscivo a evitarlo. Non mi riconoscevo né fuori né dentro. Cercavo di sorridere, ma ciò che restava delle mie labbra assumeva una forma inguardabile, e faceva male». È forse per questo che i sette interventi di chirurgia plastica a cui l’hanno sottoposta i medici nell’ultimo anno sono iniziati proprio dalla ricostruzione delle labbra, per ridare a Wafaa quel sorriso che ogni bambino merita. «C’è una fiaba siriana che racconta di una principessa imprigionata. Guardandosi allo specchio, vedeva il cielo anziché il suo volto. Non ne avevo mai davvero capito il senso come ora», dice Wafaa che oggi riesce a guardarsi allo specchio senza paura. «Nei segni delle ustioni che mi coprono il volto e che scendono per tutto il corpo come radici, non vedo più le linee dell’infelicità, ma l’amore di chi ha deciso di aiutarmi e di chi ha scelto di essermi amico», dice, esplorando la sua nuova idea di bellezza. «È stato come aprire una finestra dopo una vita passata in una stanza buia», conclude, celando dietro quella metafora la felicità della rinascita e del suo presente.

Nel suo viaggio in Italia, Wafaa ha trovato la prima volta di molte cose. Non aveva mai visto il mare, non aveva mai avuto un piatto di cibo tutto per sé, senza che dovesse dividerlo con i suoi otto fratelli. E non era neppure mai andata a scuola. «Me lo ricordo il primo giorno», racconta con un fremito di gioia. «Sorridevo a tutti anche se non capivo una parola di quello che mi dicevano. C’era il Tevere fuori dalla finestra, gli alberi e i gabbiani. E nessuno fece domande sulle mie cicatrici. Per me questo era sufficiente. Mi sentivo come se fossi uguale agli altri bambini». Wafaa si unì a una quinta elementare della scuola Virgilio e il caso volle che nel banco a fianco al suo sedesse Ginevra, la figlia di uno dei medici che la stavano curando al Bambino Gesù. «All’inizio, per capirci mimavamo le parole. Ci faceva ridere un sacco. Poi lei mi ha aiutato a imparare l’italiano e io le ho insegnato come vincere a bottle flip, quel gioco dove lanci una bottiglia di plastica mezza piena e la devi far cadere in piedi. È così che siamo diventate amiche», racconta con un tenero piglio da donna vissuta. In Ginevra ha trovato una confidente, uno sguardo sincero capace di vedere la bambina che era, e non la vittima. Quell’amicizia le faceva bene al cuore e per la prima volta nella sua vita riuscì a pensare che qualcosa sarebbe durato per sempre. «In Siria mi ero abituata all’idea di perdere tutto. Gli amici, la casa, il sonno. Anche la vita. Perché la prima cosa che la guerra ti toglie è la felicità». Tra le capriole della fantasia, e insieme al suo corpo, Wafaa sta ricostruendo quella dignità che dovrebbe essere garantita a ogni essere umano, fatta di libertà, uguaglianza e diritto alla vita. E nella sua innocenza, in questo nostro mondo che troppo spesso diamo per scontato, immagina il futuro che vorrebbe. «Ogni tanto parlo con i miei fratelli ad Aleppo e gli racconto che cosa sto vivendo. Gli parlo di un cielo senza bombe e di un fiume senza sangue».

Non può cancellare dalla memoria la distruzione di Aleppo, lo sguardo terribile degli esseri umani che hanno guardato oltre la follia e che vivono ogni giorno abbracciati alla morte, tra le macerie della loro vita. Ma in questa nostra Italia, dove le pare che sia sempre primavera, ha ritrovato i sogni e la forza di chi non ha più paura. «Appena potrò tornerò in Siria», dice con fermezza, «per raccontare a tutti i bambini che esiste, che l’ho vista, la pace». A un anno dal suo primo giorno di scuola, Wafaa parla un italiano semplice ma che non si arrende. Dove non arrivano le parole, ci sono i gesti. E se le cose che vorrebbe dire sono troppo grandi per le sue giovani e martoriate mani, allora solleva il capo al cielo, e sorride.