Quando, due anni fa, Netflix ha rilasciato To All the Boys I've Loved Before, la teen romantic comedy diretta da Susan Johnson e basata sull’omonimo libro di Jenny Han uscito nel 2014 (e rimasto per 40 settimane nella lista dei bestseller del New York Times, sezione Young Adult fiction), la complessità emozionale e la credibilità dei personaggi stupirono la critica, insieme al tono autoironico che contribuiva a renderlo un prodotto maturo, certamente fuori dallo stereotipo della teen comedy “fatta in serie”. Certo, sono tantissime le rom-com che se analizzate al di fuori del pregiudizio che penalizza da sempre il genere, che li vuole film “fatti per sognare” ed esclusivamente rivolti a un pubblico femminile e prevalentemente giovane, si svelano come prodotti sofisticati e in grado di rappresentare il proprio contemporaneo oltre che la visione di chi li realizza attraverso la messa in scena dell’amore e delle relazioni - ovvero le interazioni più comuni al mondo, facili da interpretare per chiunque. L’idea che una commedia romantica che parla di come due persone si innamorano e gestiscono il proprio sentimento debba essere meno urgente, meno rappresentativa del contemporaneo di un film in finto piano sequenza che stilizza eventi della Prima Guerra Mondiale in cui quasi l’intero cast è al maschile (come 1917 di Sam Mendes), è ovviamente frutto dell’idea discriminatoria che esistano cose più importanti dei sentimenti da raccontare, e che solo le donne possano interessarsi a questo tipo di racconto, e va detto che a seconda parte di questo ragionamento non è del tutto falsa: il ripiegamento femminile sul privato e sulle emozioni è conseguenza naturale della storica esclusione delle donne dalla vita pubblica e dai grandi eventi della storia.

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Per secoli, alle donne è stato forzatamente riservato un ruolo domestico, di cura, che le metteva in secondo piano rispetto alle questioni che incidevano davvero sul destino del mondo e le donne hanno reagito cercando di approfondire, e fare la differenza, entro gli stretti confini in cui venivano relegate, anche grazie a un’educazione meno repressiva rispetto all’espressione dei sentimenti rispetto a quella degli ultimi, dando quindi vita a un circolo vizioso in cui il pregiudizio sul sentimentalismo delle donne, rafforzato da discriminazione di genere ed educazione volta a rafforzarlo, finiva per confermare se stesso. La repressione dell’emozione maschile è dunque l’altra faccia del discorso, che spesso non permette agli uomini (perlomeno quelli che non hanno abbastanza coraggio e lucidità nel cercare di superare la loro educazione) nelle condizioni di non capire la potenza della pura narrazione dei sentimenti, reagendo quindi al genere romantico con un senso di imbarazzo, vergogna, paura e come spesso succede, derubricando le cose che non capisce e teme alla stregua di sciocchezze o peggio, pericolose deviazioni da ciò che è giusto.

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Nel caso del cinema, “ciò che è giusto significa spesso ciò che è considerato degno di essere raccontato, di essere valutato criticamente e di conseguenza, qualitativamente degno. Logico quindi che non rientrando il romanticismo nel canone di ciò che vale la pena di essere analizzato da una critica e un’accademia prevalentemente composta da uomini, la rom-com sia mai stata considerata un genere che valesse la pena consigliare, studiare, premiare. Anche molte donne cadono spesso in questa trappola, applicando il criterio di valutazione di libri e articoli scritti da maschi come un criterio univoco per la definizione della qualità cinematografica e trattando le romantic comedy come un genere minore, da guilty pleasure: qualcosa di cui si può godere ma che in fondo non ammettiamo facilmente di amare, perlomeno non nello stesso modo in cui si ama il “vero cinema”, quello il cui prestigio culturale può trasmettersi anche a noi e dunque renderci interlocutrici “degne” all’interno di un dibattito in cui il punto di vista maschile è ancora del tutto egemone. Peggiore ancora è spesso il giudizio riservato alle rom-com del sottogenere teen, che aggiungono una sfumatura di immaturità alla già penalizzante idea di raccontare qualcosa di sentimentale (se c’è qualcosa trattato con più snobismo nella nostra società dell’amore, è l’amore adolescenziale) e in questo caso il pregiudizio è così forte da confermare se stesso: essendo rivolte a un pubblico molto giovane, ritenuto meno raffinato e meno capace di giudizio, storicamente i film destinati agli adolescenti vengono realizzati con basso budget e affidati ad autori e autrici non A-lister, così come il cast e la crew tecnica. Di conseguenza, la riuscita del film è quasi sempre affidata all’inventiva narrativa e realizzativa, generando certamente indubbi capolavori e inaspettati successi come Dirty Dancing o Sixteen Candles ma anche flop clamorosi e filmetti di infima qualità.

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Il film To All the Boys: P.S. I Still Love You non è soltanto una rom-com, non è soltanto per teenager ma è anche un sequel di To All the Boys I've Loved Before e chiunque sia appassionato di cinema sa benissimo di quanto poco credito godano i sequel di film di successo, spesso considerati segno di bancarotta creativa o sfruttamenti commerciali di idee di successo che dovevano esaurirsi in un singolo film, “allungamenti del brodo” non necessari e figli della cultura della serializzazione a tutti i costi così detestata dalla critica blasonata (quella, per intenderci, che considera le saghe dei supereroi non all’altezza del “vero cinema”, come le romantic comedies appunto), anche perché la serializzazione avvicina pericolosamente il cinema alla televisione, da sempre considerata sorella minore e media di secondo piano nonostante in termini di numeri sia da molti anni il media più pervasivo nella vita degli spettatori. Dunque P.S. I Still Love You è un film che sulla carta, o meglio nel pregiudizio, parte sotto i peggiori auspici senza considerare che è persino tratto da un libro young adult (anche qui vale la stessa cosa che per il cinema: i libri per ragazze non sono “cultura vera”) di grande successo (sembra impossibile, eppure per un certo genere di intellettuale un libro che vende tantissimo deve per forza essere mediocre - basti pensare allo snobismo con cui per anni è stato trattato Stephen King) ed è uscito dalla fucina di rom-com di Netflix, piattaforma di streaming spesso accusata anch’essa di “uccidere il cinema” - ormai avrete perso il conto ma per il critico cinematografico medio qualcuno uccide il cinema almeno una volta a settimana - e di produrre film in serie utilizzando come riferimento non la creatività autoriale ma i meri dati di visione.

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Pur arrivando dopo un grande successo di critica e pubblico, P.S. I Still Love You sembrava un prodotto ad alta probabilità di fallimento anche da un punto di vista narrativo: come racconti quello che viene dopo il lieto fine? Certamente in questo caso aiuta l’avere ben due libri sequel, ma l’impresa non è comunque facile perché questa seconda parte si sceglie il compito non facile di decostruire l’infatuazione, svelarne i limiti: Peter non né il ragazzo perfetto che sembrava, lui e Lara Jean anche se innamorati continuano ad appartenere a due mondi diversi e soprattutto, stare insieme non vuol dire che il mondo intorno, coi suoi problemi e le sue tentazioni, scompaia. Le rom-com adolescenziali che si preoccupano di svelare i lati più prosaici dell’amore si contano sulle dita della mano, ma quelle che trattano i loro personaggi come esseri umani complessi sono ancora meno, per questo il ciclo di To All the Boys (che esistendo un terzo libro, quasi sicuramente avrà anche un terzo film) merita di essere analizzato e apprezzato con tutta l’attenzione che si darebbe a un film adulto. Anche perché che adulte tristi saremmo, se non coccolassimo ogni tanto la ragazzina che è in noi, una ragazzina che come la protagonista Lara Jean merita il nostro rispetto ed è molto più interessante di come ci hanno abituato a pensare.

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