Il quarantennale di Kramer contro Kramer io l’ho celebrato in anticipo, poco prima di Natale, sulla linea verde del metrò milanese. Un padre con zainetto (cioè: vestito come si vestivano i figli quando i padri erano figure rispettabili) è salito con un ottenne, verso il quale si è subito profuso in scuse: non c’erano posti a sedere, e il moccioso era molto scocciato dal fatto che nessuno avesse pensato alla sua comodità; poi l’ottenne ha deciso che, nelle quattro fermate di tragitto, doveva fare merenda (quando Carrie Fisher scriveva che la gratificazione istantanea ci mette troppo tempo, parlava di come avremmo educato i nostri figli in questo secolo), e quindi il padre gli ha retto il cartoccio sotto il mento acciocché mangiando non si sporcasse; infine, ho assistito alla straziante scena del padre che guarda le porte aprirsi e sa che devono scendere e non sa come dirlo, terrorizzato d’interrompere l’aneddoto certamente interessantissimo che il moccioso sta raccontando e d’impermalirlo. Per fortuna sotto Natale è tutto rallentato, il metrò è stato fermo un po’ di più, e sono scesi al volo allorché il piccolo imperatore ha finito di esprimersi.

In verità vi dico: prima di Kramer contro Kramer tutto ciò sarebbe stato inconcepibile. Il film in cui Meryl Streep se ne va di casa per ritrovarsi (qualunque cosa significhi), e Dustin Hoffman s’improvvisa padre a tempo pieno, e divorziano e dopo un anno lei torna e rivuole il ragazzino uscì nel marzo del 1980, quando i nostri genitori erano adulti che vivevano da adulti; questa è anche l’unica ragione per cui le bambine della mia generazione lo videro al cinema: erano tempi in cui, se una sera non trovavano la babysitter e volevano uscire, i grandi ti portavano a fare cose da grandi. Non erano certo loro che adeguavano i loro consumi culturali ai tuoi gusti, tranne quelle due volte l’anno in cui si andava al circo o a vedere il cartone Disney.

Come funziona adesso lo sapete. Jancee Dunn, autrice di Come non odiare tuo marito dopo i figli (Sonzogno), ha scritto sul New York Times che nel suo matrimonio sono in tre: la bambina si considera una loro pari nel decidere che film guardare o cosa fare la domenica, s’intromette nelle discussioni tra loro, non ha remore né senso dei ruoli. Dunn pensa sia colpa della sindrome del figlio unico e del fatto che gli appartamenti newyorkesi sono troppo piccoli per dividere gli spazi vitali, ma se lo rivedrete da adulte capirete che è colpa di Kramer contro Kramer. Che viene catalogato come un film sul divorzio, ma è un film sulla genitorialità del secolo successivo.

Dustin Hoffman in una scena del film Kramer contro Kramerpinterest
Contrasto
Dustin Hoffman in una scena del film Kramer contro Kramer


Se l’avete visto quarant’anni fa, avrete ricordi vaghi, sintetizzabili così: Dustin Hoffman all’inizio è un pessimo padre, ma poi migliora e diventa il padre ideale. Tracciamo quindi un identikit del pessimo genitore come illustrato dal film. La prima mattina in cui si trova a dover preparare la colazione, Dustin si rivela non a conoscenza del processo di preparazione dei french toast (questa pecca gravissima in un remake di oggi sarebbe aggiornata in qualcosa tipo: è il bambino a dovergli dire di usare il latte di mandorla, giacché il bruto userebbe del volgare latte vaccino). Successivamente Dustin – che osa avere una carriera: che schifo, che insensibilità, che poca vocazione all’essere genitore – mostra le seguenti gravissime mancanze: liquida rapidamente il bambino quando lui telefona in ufficio per chiedere di guardare più tv di quanto concordato; arriva in ritardo a prenderlo a una festa; perde la pazienza quando il ragazzino annoiato e molesto gli rovescia un bicchiere di latte su dei documenti di lavoro; lo manda in camera sua (nientemeno!) quando egli non si fila la cena preparata dal padre ma prende dal freezer una vaschetta di gelato, neanche fosse una zitella trentenne invece che un seienne bisognoso di nutrirsi per crescere. Nel 1980 queste scene facevano apparire lui un uomo sfortunato che non si capiva perché non assumesse una balia, e il ragazzino un capriccioso che avrebbe meritato il collegio militare; nel 2020, rappresentano un ragazzino medio e un genitore che tarda ad adeguarsi alle aspettative di dedizione assoluta che il suo ruolo evoca.

Stabilito il profilo d’un genitore riprovevole, il film passa a illustrare la transizione a genitore perbene. Con la scena del parchetto. Dustin è su una panchina che chiacchiera, i bambini giocano, suo figlio cade. Si fa un taglietto, di quelli che quarant’anni fa sarebbero stati verosimilmente liquidati con «bacino e passa la bua». Segue corsa al pronto soccorso con un pathos che come minimo ti aspetti il bambino resti leso a vita, e il taglietto verrà poi rinfacciato dall’avvocato della madre in corso di divorzio. Oggi, Dustin Hoffman correrebbe su Facebook a flagellarsi in quanto genitore irresponsabile, e ci vorrebbero centinaia di «può capitare a tutti» per consolarlo delle sue mancanze. («Può capitare a tutte» è frase chiave nei gruppi di mamme, utilizzata indifferentemente per rassicurare la madre indegna che l’ha mandato a scuola senza soldi per la gita ma anche per dire che un bambino dimenticato in macchina e lasciato morire non è ragione sufficiente per colpevolizzarsi: siamo un’epoca esigentissima sulle minutaglie ma pronta ad assolvere le mancanze più apocalittiche).

A dicembre la scrittrice Lucy Ellmann ha detto, in un’intervista al Guardian, una cosa per cui le altre scrittrici l’hanno insultata per giorni sui social. Ve la ricopio qui, sebbene terrorizzata dalle conseguenze e tentata di ricordarvi più volte che la frase non è mia (sono una vile). «Non si parla abbastanza di quanto essere genitori sia stancante, noioso, irritante, costoso, ingrato, e uno spreco di tempo. Perché dobbiamo continuare a far finta sia una gioia? Certo, ci sono aspetti deliziosi: i bambini sono teneri e affascinanti, e se ne hai puoi avere di nuovo giocattoli e libri per bambini e ricordarti la tua infanzia. Ma le malattie, le preoccupazioni, il conflitto, la mancanza di privacy, l’indefesso cucinare, guidare, la repressione della propria sessualità, i dilemmi su come crescerlo, la mancanza di prospettive professionali, e la follia dell’adolescenza: grossi deterrenti. Guardi una donna che resta incinta, e sai che sarà emotivamente e intellettualmente assente per vent’anni. Il pensiero, la conoscenza, la conversazione adulta, l’azione politica sono tutte cose che vengono messe in pausa mentre viene data la priorità a questo superfluo perpetuarsi della specie». Le risposte erano perlopiù riassumibili in «Parla per te, io ho due figli e ho scritto tot libri da quando sono nati». Tuttavia, Ellmann dice molte verità (oddio, l’ho detto, vado a mettermi al riparo dagli strali), la principale delle quali è che abitiamo un’epoca in cui si fanno i figli per rivivere l’infanzia, per giocare coi loro giocattoli, vestirsi come loro, guardare i cartoni animati, iscriversi a Tik Tok con la scusa di vedere su che social stanno i nostri figli: siamo un’epoca di adulti lietamente scimuniti. Percepiamo esseri umani troppo bassi per arrivare da soli a lavarsi i denti nel lavandino come nostri pari, come nel matrimonio a tre della Dunn, e sentiamo di doverci annullare per loro.

Quando è uscito Storia di un matrimonio, il film di Noah Baumbach sul suo divorzio da Jennifer Jason Leigh, il New York Times ha stigmatizzato fosse un film in cui il marito non evolve, mentre il protagonista di Kramer contro Kramer sì che cresceva. La sinossi di mio padre all’epoca fu «quella poco di buono ha sfasciato una famiglia perché doveva far carriera»: oggi si vergognerebbe di dirlo, quindi sì, i tempi sono cambiati. Ma la crescita di Dustin Hoffman consisteva nel farsi licenziare perché non era capace di dire al bambino «ora non rompere, papà deve lavorare», e in ciò è stato il più dannoso modello di genitore della storia del cinema. La mamma se ne andava di casa per realizzarsi (cioè: si trovava un lavoro), il papà il lavoro lo perdeva per star dietro ai capricci della prole. Il giudice capiva bene chi dei due fosse l’adulto (lui perdeva la causa d’affidamento), tuttavia noi abbiamo deciso di trarne la lezione che ai bambini occorra dedicare ventiquattr’ore al giorno d’attenzione: cresceranno equilibratissimi e noi finiremo per niente esaurite. Non ci serve una carriera: l’importante è che non bruciamo i french toast del pupo, mica vorremo fargli cominciare la giornata di cattivo umore.