È morto Ulay, all’età di 76 anni. E nel mondo dell’arte cala un silenzio surreale. Ci sono dei volti, delle storie, delle vite che si ritengono immortali. Ma è solo un’illusione. E Ulay, pseudonimo di Frank Uwe Laysiepen, lo ha sempre raccontato attraverso le sue opere, dalle fotografie, con cui ha dato inizio alla sua carriera, alla performance art, da solo o assieme alla sua compagna di una vita, Marina Abramović. Nato a Solingen il 30 novembre 1943, la sua scomparsa avviene a Lubiana, capitale della Slovenia il 2 marzo. A divulgare la notizia è la stampa della città, nella quale l’artista ha deciso di vivere negli ultimi 10 anni. Nel 2011 contrae il cancro. Ma Ulay riesce a sconfiggerlo e racconta questa sfida nel 2014, a Trieste, dove era presente in occasione del Trieste Film Festival per presentare il documentario Project Cancer, realizzato da Damjan Kozole: “Nel picco della mia carriera ho trattato molto male il mio corpo con azioni masochistiche, auto-aggressive, ferendomi da solo. Tre anni fa ho scoperto di avere un cancro. Ma non aveva nulla a che fare col mio lavoro: le mie performance del passato, anzi, mi hanno insegnato che la mente deve essere più potente del corpo”. Il film vede Ulay tornare nei luoghi che hanno segnato la sua vita. Vita che spesso è sinonimo di carriera, di incontri, di delusioni e grandi successi. Come Imponderabilia, nel 1977 a Bologna presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna. La performance viene pensata e realizzata assieme a Marina Abramović e vede i due nudi, uno di fronte all’altro, mentre i visitatori dello spazio museale erano costretti a passarvi attraverso se volevano andare nella stanza successiva. Abramović ha riproposto quest’opera vivente nella mostra The Cleaner a Palazzo Strozzi nel 2019.

Event, heater, Performance, Performance art, Performing arts, Drama, Furniture, Acting, pinterest
Getty Images

Tutto il mondo ha potuto conoscere e vivere, in un certo senso, la storia d’amore tra

Marina Abramović e Ulay, un “giovane con il volto per metà maschile e l’altra parte femminile, poiché era truccato”. Sono le parole tratte dall’autobiografia Attraversare i muri con cui Abramović descrive l’artista tedesco, rimasto orfano precocemente e quindi privo di alcun legame familiare. E quest’ultimo aspetto è significativo per capire la relazione tra i due, che culmina nella performance più nota di tutte, ovvero quella realizzata sulla Muraglia Cinese. L’obiettivo era trovarsi esattamente a metà strada e poi sposarsi, mentre è andata diversamente: “Alla fine ci incontrammo il 27 giugno 1988, tre mesi dopo aver iniziato a Erlang Shen, Shennu, nella provincia di Shaanxi. Solo che il nostro incontro non fu quello che avevamo immaginato. Invece di vedere Ulay venirmi incontro dalla direzione opposta, lo trovai ad aspettarmi in un punto altamente scenografico, tra un tempio confricano e uno taoista. Era lì da tre giorni”. Racconta nel suo libro Marina Abramović. Alla fine Ulay è andato incontro a Marina, solo che gli ci è voluto un po’ di tempo per farlo. Era il 2010 quando il fotografo si è seduto difronte a lei, nell’esibizione di Marina Abramović The artist is present, avvenuta nel 2010 al MoMa di New York. Lacrime e applausi da far venire la pelle d’oca. Simbolicamente il gesto è stato un segno di pace, a cui, ancora una volta, ha assistito tutto il mondo. Dalle Polaroid con cui ha iniziato la sua carriera a Project Cancer, passando per le Azioni con Marina, l’arte dell’artista tedesco è e sarà sempre un tutt’uno con la sua stessa vita. La morte di Ulay lascia il pubblico dell’arte sgomento, ma altrettanto consapevole che da qualche parte c’è ancora un camioncino nel quale lui e Abramović si spostavano in giro per l’Europa mangiando poco, sempre in compagna della loro cagnolina Alba. Per cercare il senso dell’arte e della vita, che per loro erano (e sono) la stessa cosa.