Coronavirus è una parola che ormai dà la nausea solo a sentirla pronunciare e non c’è modo di ignorarla senza essere irrispettosi nei confronti di chi il virus lo sta subendo. Siamo stufi di essere cauti (e dobbiamo farlo, per proteggere chi è più fragile), stufi di stare in casa perché la palestra, il cinema, il bar dell’aperitivo sono chiusi, perché quegli eventi a cui tenevamo tanto sono saltati, perché il viaggio che volevamo fare in primavera è diventato un “mah, chissà...”, e perché eravamo all’inizio di un flirt che forse non avrà più seguito perché di baciare gente appena conosciuta non se ne parla, e quando sarà tutto finito l'attrazione sarà sbollita. Siamo così isolati che nemmeno un drone lanciato in volo sui confini italiani riesce a cogliere chiaramente come appariamo da fuori. Il sospetto è quello di sembrare degli appestati, di apparire come i soliti italiani che di un problema globale riescono a darne la versione peggiore possibile. Ma siamo proprio certi che sia così? Perché se ogni medaglia, anche la più arrugginita, ha sempre il suo rovescio, l’unico modo per capire cosa dicono di noi all’estero è quelli vecchio stile: leggere i giornali stranieri.


Il popolare quotidiano irlandese Irish Times riferisce diplomaticamente che il primo contagiato di Dublino era di ritorno dal “nord Italia”, si guarda bene dal trattarci come un focolaio infernale e si sofferma invece sull’esplosione dell’epidemia dalla Cina. La stampa locale aveva previsto sin dai primi casi in Italia che il virus sarebbe arrivato anche da loro, sottintendendo un tacito gemellaggio fra il loro paese e il nostro per simpatia reciproca. Invece di sbarrare ogni accesso verso l’Italia, infatti, il governo si è limitato a dissuadere gli irlandesi dal viaggiare verso le aree italiane col maggior numero di casi e ha messo a disposizione sui siti istituzionali una mappa che segnala le zone rosse e arancioni, oltre a fare presente tutte le restrizioni sportive in corso, che sono poi gli eventi più attraenti per gli irlandesi. Dalla stampa svizzera ci si sarebbe potuto attendere lamentele, visto la frequenza quotidiana che porta ogni giorno molti frontalieri da Milano al Ticino. Ma i pochi contagiati (al momento 27) non sono distribuiti nei cantoni confinanti con l’Italia, per cui zero polemiche. Il quotidiano portoghese Publico si è interessato all’aumento di contagi in Italia fino al primo caso locale. Ora tira in ballo l'Italia più che altro sulle restrizioni nel campionato di calcio, ma racconta le misure di sicurezza adottate dal governo in un tono che sembra più di approvazione che discriminazione.


Leviamoci subito il pensiero: cosa ne pensano di noi nei paesi da cui arrivano in genere molti immigrati? Prendendo un paese campione come il Marocco, pioniere dell’immigrazione verso l’Italia, il giornalista Soufiane Malouni racconta che è normale, fra la gente comune, ironizzare un po’ (amaramente) su una nave in arrivo dall'Italia che è stata bloccata al largo nei giorni scorsi. Ma la stampa, in particolare la testata Hespress che è molto popolare, non si accanisce: “Oggi sta girando molto la notizia che un uomo ricoverato all’ospedale Sidi Moumen di Casablanca con febbre molto alta, sospettato di contagio perché suo fratello era tornato dall'Italia, è risultato negativo. Un sospiro di sollievo. Ma se dovesse verificarsi un caso positivo, i voli con Italia, Francia e Germania verranno bloccati, così come già non possono atterrare quelli cinesi. Cosa dicono i Tg locali? I marocchini sono preoccupati per l'Italia quanto lo siete voi, perché in Italia ci sono quasi 700mila di noi e tanti che hanno programmato viaggi da e per il Marocco nelle prossime settimane temono che gli vengano cancellati i voli”.

In Germania la stampa non ci ha fatta mai mancare strali dal Der Spiegel, con pistole posate su piatti di pastasciutta o nodi scorsoi di spaghetti in copertina. Stavolta ci attacca con un titolo che parla di “isteria” e di “un paese in preda alla peste”, ma poi nell’articolo ammette che i loro reporter non sono riusciti a varcare i rigorosi posti di blocco verso Casalpusterlengo, che forse volevano violare per dimostrare l’ennesima inclinazione congenita italiana al disservizio. Il Bild non ci prova nemmeno: racconta il caso di un loro contagiato, un berlinese di 29 anni tornato dal Carnevale di Venezia, ma invece di incolpare l'Italia si scaglia contro la sanità locale col titolo: "I medici probabilmente non prendono molto sul serio la situazione". Arriviamo alla Francia. Le Monde è molto interessato alla situazione di Prato, che chiama la "Hong Kong italiana", dove “la grande comunità cinese si è messa in quarantena, condannandosi a rimanere la maggior parte del tempo a casa”. Intervista gli italocinesi residenti e se deve far polemica velata, è solo sulla discriminazione che hanno subito dall’esplosione del virus a Wuhan. Poi però tre giorni dopo, parla dell'arte italiana come antidoto alle paure legate al coronavirus: “Il direttore degli studi presso il prestigioso liceo Volta di Milano ha invocato la letteratura italiana, ricca di evocazioni della peste, per mettere in guardia contro la psicosi nata dall'epidemia di coronavirus in Lombardia”. Insomma, non proprio carta straccia.

Nessuna polemica di cattiva gestione nemmeno dallo spagnolo El País, che si limita a fornire una cronaca ben documentata dei contagi in Italia, raccontando persino la storia del caso a Palermo. Ma si intuisce, leggendo, una forte identificazione (solidale?) con noi e il tentativo di capire a cosa vanno incontro in caso di numeri alti, ora che persino lo scrittore Luis Sepùlveda è risultato positivo. Infatti, un articolo molto dettagliato intitolato “L'Italia inietterà 3.600 milioni per mitigare gli effetti del coronavirus” non fa un cenno di protesta sullo sforamento del limite massimo Ue del debito pubblico. Un’altra importante testata, Asia Times, la butta sul sentimentalismo e accomuna Italia e Cina in una storia di destini incrociati che, velatamente, affonda le radici nel rispetto asiatico nei confronti dell’Italian Style, una sorta di consolazione, perché se anche i migliori ci cascano sale l’autostima: “Dietro la diffusione del virus, il mondo deve riflettere sulle condizioni dei mercati di merci fresche e sullo sviluppo agricolo irregolare della Cina”, spiega uno dei loro dettagliati articoli, non si sa bene con quanta pertinenza, divagando sul parmigiano reggiano e sulla produzione di latte nell’uno e nell’altro paese. Forse troppo lontani per valutare la situazione obiettivamente?

E arriviamo infine ai paesi di lingua anglosassone. Il Guardian riporta: “L'Italia ha dichiarato che le infezioni confermate sono aumentate del 40% in 24 ore, 1.576, con il bilancio delle vittime a 34. In Germania il numero di persone infette è quasi raddoppiato a 129, mentre la Francia si è attestata a 100 nuovi casi di cui 9 in gravi condizioni”. Okay, il Regno Unito ha sempre tirato su paragoni a vantaggio di casa propria, ora che c’è da giustificare la spesa di una Brexit fresca, magari ancora di più. Anche loro si soffermano sul calcio e sulla quarantena volontaria che si sono imposti i britannici rientrati dall’Italia. Da qualsiasi punto dell’Italia. Infatti, per parlare dei contagi usano foto del Colosseo (un filo cliché) o della stazione di Roma Termini. Dagli Stati Uniti, infine, qualche luogo comune è inevitabile. Il New York Times ha un corrispondente italiano dalla visione privilegiata come Beppe Severgnini e finché parla lui, tutto ok. Il collega americano stanziato in Vaticano, Jason Horowitz, fa il suo pezzone invece sulle messe domenicali deserte, oppure racconta drammaticamente di famiglie divise dalla quarantena e del conforto che gli isolati stanno trovando “in sigarette e focacce” (gli interessati confermano?). Bello, invece, l’articolo di Hanna Marcus in cui ripercorre la storia delle epidemie in Italia (e dei loro effetti sociali) e rammenta che Venezia, dove è stato sospeso il Carnevale, è la città dove è nata la parola “quarantena” durante la peste.

“Le epidemie rivelano la vera faccia delle società che colpiscono. La risposta di una nazione al disastro parla dei suoi punti di forza e delle sue disfunzioni”, scrive Anne Applebaum di The Atlantic all’inizio di un articolo che noi italiani temiamo di leggere fino in fondo per paura della bastonata finale. E invece, è un elogio: “I cinesi hanno già pagato un prezzo elevato per la segretezza del loro sistema (…) che ha portato molti, inizialmente, a nascondere la malattia”, spiega la giornalista. “Al contrario, uno dei motivi per cui gli italiani non si fanno più prendere dal panico è la fiducia nel sistema di sanità pubblica (…). L'Italia ha già testato molte migliaia di persone per il virus - il test è gratuito, ovviamente - che è uno dei motivi per cui i numeri sono molto più alti lì che altrove.(…) È motivo di orgoglio. Pochi altri in Europa, finora, lo stanno testando ampiamente. E, naturalmente, gli Stati Uniti non stanno facendo nulla del genere”. No, nessuno negli Stati Uniti azzarderà mai una critica, verso l’Italia. Perché un tampone da noi, appunto, è gratis. Farlo a New York, in questi giorni, può costare fino a 3500 dollari, e quasi nessuna assicurazione lo copre. Un ricovero, se positivi, può arrivare a decine, centinaia di migliaia di dollari. Un imprevisto che sta facendo rimpiangere i tentativi di Obama di replicare il nostro sistema sanitario pubblico, che noi diamo tanto per scontato e di cui oggi l'Organizzazione Mondiale della Sanità sta sostenendo le procedure di contenimento del contagio. E che ora, in tutto il mondo, ci invidiano.