#iorestoacasa e ho delle paure. Ma per una volta mi pare tutta roba buona.

Niente ipocondrie che infastidiscono la calma piatta della giornata, niente angosce irrazionali che fanno buh a tradimento nel dormiveglia della notte, per cui dal dormi diventa subito veglia. No, c’è il coronavirus là fuori, e ho paura di prendermelo.

Dicono tutti che è molto facile e mi tengo stretta questa emozione nuova e antica: il terrore di non sopravvivere a una calamità, o che capiti a qualcuno dei miei cari. Mi sembra sano. Ci siamo messi al riparo dal contatto con tutti gli amici, e in quarantena rispetto ai miei genitori, i Santissimi Nonni. Che hanno parato il parabile in questi anni, i veri jolly del welfare all’italiana, le persone grazie a cui un pezzo di questo mondo va avanti, e che comunque nei giorni scorsi potremmo aver contagiato chiedendo l’ennesimo salvifico babysitteraggio.

E poi, anche se ho appena iniziato questa nuova vita, ho paura di quando finirà. Mio figlio ha 8 anni ed è nell’altra stanza. Mentre scrivo gli ho detto di vestirsi perché sono le 11 del mattino, ma lo sento fare tre personaggi contemporaneamente, con tre voci diverse. Credo sia mezzo nudo perché sta scoprendo il privilegio di non avere una madre che gli grida “sbrigati, dobbiamo uscire!” la mattina. Molto spesso anche nel week end, perché se non è basket è il bivacco scout o la spesa da fare, o il pranzo organizzato.

Niente, le cose da dover fare non sono più una sequenza implacabile. Non funziona più che le cose sono lì, belle grosse e inamovibili, e noi ci muoviamo entrando e uscendo da ciascuna di esse, un attimo prima che chiudano le loro fauci dentate e ci mandino in tilt i piani, l’umore, la vita.

Sguazzo nel vuoto dell’agenda, a momenti mi sento persa o con la testa che gira, come quando si inala troppo ossigeno.

Di fronte a me c’è mio marito che lavora. Lui è già entrato nella terza settimana di smart working, è già un veterano, la sua azienda è stata tra le prime a capire cosa stava succedendo e a voler proteggere i suoi dipendenti. Lui verso l’una si alza, va al fornello e improvvisa un pranzo per staccare con la testa. Diolobenedica.

Da quando è iniziata a montare la paura, due settimane fa, alla mattina prima che mi alzi a fare il caffè io e lui ci teniamo abbracciati per un po’. Restiamo come animali nell’odore rassicurante del nostro letto. Insieme. Che paura che finisca.

Tra poco mangeremo e poi andremo a farci una passeggiata “assembramenti free” prima di ricominciare a lavorare.

Provo tanta riconoscenza verso me stessa per questa scelta radicale guardata da tutti come antistorica di non farlo giocare coi videogiochi. Ora non sarei in grado di stopparlo, visto che sto facendo altro e non gli posso stare dietro. Mio figlio ha i suoi compiti e ha scoperto Asterix, gli audiolibri che ascolta per ore e anche proprio i libri da leggere. Si piazza con la gambetta accavallata e finalmente lo vedo sprofondare nei mondi della storia che ha davanti. Come facevo io. Credevo che a lui non sarebbe mai capitato, non ce n’era il tempo.

Sì, ho paura che poi questo tempo gli risfugga dalle mani. Inizio a pensare che sarebbe per lui una perdita incolmabile.

E ho paura di tornare a fare la madre da remoto, mandando vocali al tato messicano che vede crescere mio figlio più di me. Anzi, a volte lo “vede” più di me.

In tre giorni siamo diventati la famiglia che prima avremmo potuto essere, ma non riuscivamo per la legge delle tre carte, diciamo anime: quando c’è un genitore, l’altro è da un’altra parte a fare qualcosa di importantissimo. Più spesso non ci sono tutti e due. L’unico che c’è sempre, con uno dei genitori o con nessuno (vedi tato o nonni), è nostro figlio.

In questi giorni si leggono un sacco di articoli interessanti di psicologi e psicanalisti e sociologi su come tutto questo ci renderà più consapevoli, di come riscopriremo il valore del tempo e della famiglia e dei valori veri, di come fosse necessario uno scossone.

Io sono sicurissima invece che quando l’emergenza finirà, anche se il mondo dovesse essere crollato, tutto ricomincerà come se niente fosse capitato.

E questa è la paura più grande.

Ma per una volta è una paura buona.