Nel weekend scorso è successo qualcosa di importante. Probabilmente avete seguito la notizia: i fan del K-pop si sono mobilitati, usando soprattutto Tik Tok, per umiliare Trump e l'organizzazione del suo comizio a Tulsa, in Oklahoma, il primo dopo la pandemia e le proteste di Black Lives Matter. Il metodo è stato di una semplicità disarmante: hanno prenotato un numero abnorme di biglietti (erano gratuiti), facendo credere a Trump che avrebbe trovato una folla oceanica ad ascoltarlo, quando invece il palazzetto era semivuoto, per la paura del virus, di altre proteste e probabilmente anche di questa immaginaria folla di sostenitori (senza mascherina). È stato un colpo tutto sommato innocuo (Trump è in grado di metabolizzare figuracce ben più grandi) ma dal discreto valore simbolico.

Una generazione fuori dalle mappe politiche è apparsa all'improvviso, in modo spettacolare e innovativo

Alexandria Ocasio-Cortez (deputata democratica di New York) ha scritto: «Alleati del K-pop, vi vediamo e riconosciamo il vostro contributo in questa battaglia per la giustizia». Poco tempo prima una mobilitazione simile aveva riempito l'hashtag razzista #WhiteLivesMatter di immagini non correlate, per svuotarlo, un'altra tattica da nativi digitali, affiancata da una più tradizionale raccolta fondi (1 milione di dollari raccolto dai BTS - il gruppo K-pop più famoso - pareggiata da un altro milione raccolto dai fan). Insomma, nel caos di questi mesi una comunità indistinta ma visibile sta bussando alla porta della politica, con un linguaggio nuovo, che merita di essere interpretato.

L'estate scorsa ho passato molto tempo sulle tracce dei fan italiani del K-pop, per un reportage pubblicato sulle pagine di Marie Claire Italia. Da tempo il pop coreano ha conquistato l'attenzione di giovani e adolescenti anche nel nostro paese (oltre alle settimane della moda, Hollywood e il mondo dello stile globale), con una generazione allevata al sogno della Corea del Sud. Con me c'era la fotografa Agnese Morganti, una delle massime conoscitrici italiane del fenomeno: abbiamo partecipato a incontri, raduni, feste e festival e quello che ho visto è andato al di là di ogni aspettativa. Un mondo inclusivo, colorato, aperto, gay friendly, pieno di spazio per l'identità di seconde e terze generazioni. Era l'estate del 2019, non sapevamo nulla dei coronavirus, ma al potere c'era ancora il governo più di destra della storia repubblicana, il dibattito era assediato da discorsi su porti chiusi e migranti bloccati in mare. E in quell'Italia sintonizzata sulla diffidenza e la xenofobia, era stato bello vedere questi ragazzi impegnati in un'esperienza così aperta, cosmopolita, queer, curiosa, che testavano i limiti dei propri e altrui gusti e che studiavano la lingua e la cultura di un paese così lontano.

Intendiamoci, queste caratteristiche non sono necessariamente parte del genere musicale in sé. L'onda coreana (che include anche i drama tv e il cinema) nasce in modo tutt'altro che spontaneo, incoraggiata da un impulso governativo, che ne ha fatto uno strumento di soft power (come d'altra parte Hollywood o il brit pop) e diversificazione industriale. Anche le band sono talvolta assemblate dall'alto, non è genere che si sviluppa in modo organico dentro un contesto, come il punk o l'hardcore. Il K-pop è un prodotto figlio dei tempi, espressione degli algoritmi più che di una visione artistica e politica. È vero, nel 2018 i BTS avevano parlato all'assemblea generale delle Nazioni Unite, ma il tema aveva maglie larghe (la violenza contro i giovani) e il messaggio era decisamente soft. Il pop coreano è insomma sempre stato politicamente prudente, eppure è riuscito a diventare una piattaforma di aggregazione per contenuti decisamente più ambiziosi e specifici, che vanno ben al di là delle canzoni stesse. È un paradosso che si vede bene quando parliamo di orientamenti sessuali. Da un lato la cultura coreana non è la più gay friendly al mondo e i coming out sono una rarità nel K-pop, dall'altro i fan usano questo mondo per esplorare in maniera libera e protetta la propria identità sessuale, usando la creatività, lo stile o le fan fiction. Su Archive of Our Own ci sono più di 200mila racconti, nella maggior parte storie d'amore immaginarie sui membri della stessa band. Sono esperimenti, esercizi di libertà, una forma di attività che cresce intorno ai dischi e ai concerti e che nella vita di un fan del K-pop finisce con l'essere altrettanto importante. In questo fermento c'è una differenza decisiva con la musica che frequentiamo di solito: il pop occidentale è un'esperienza di consumo laica, playlist, concerto e maglietta, mentre quello orientale è una missione, quasi una militanza, innanzitutto a difesa della band (i fan dei BTS si chiamano army, esercito), che però potenzialmente può andare molto oltre. Ed è per questo che i fan sono mobilitabili in modo così efficiente, come successo nel caso di Tulsa e Trump.

Dopo quegli eventi americani, ho avuto una conversazione su Twitter con una fan del K-pop. Mi ero chiesto se - pur con inapplicabili categorie novecentesche - il K-pop potesse essere considerato progressista, liberale o addirittura di sinistra, nell'orizzonte di un'idea di tolleranza, apertura verso l'altro, solidarietà, rifiuto del razzismo e dell'omofobia. Questa persona mi ha detto: sbagli, non ci riconosciamo in queste categorie. Avevo avuto risposte simili durante la mia esplorazione italiana della scorsa estate, e sicuramente hanno ragione loro a rifiutare queste etichette. Per gli adolescenti che hanno umiliato Trump, sinistra e destra sono parole che evocano troppo poco per riconoscervisi, non è la loro mappa e non sono tenuti a usarla solo per farsi capire. Però è ugualmente possibile che nella loro visione del mondo stiano entrando quei valori e anche il desiderio di mettersi in gioco per avere un effetto sul mondo. E non è una cattiva notizia.