Dal 18 ottobre 2019 il Cile sta affrontando la peggiore crisi sociale dei suoi ultimi 30 anni di democrazia. Vuoi per le scarse risorse economiche investite nell’educazione, nella riforma del sistema pensionistico e nella salute - in un paese dove la metà della popolazione guadagna uno stipendio di 400 pesos o poco meno al mese -, vuoi per lo sconforto provocato dalle politiche neoliberali attuate dal governo di Sebastián Piñera. I bisogni della società attuale riflettono lo stato disperato di un sistema socioeconomico obsoleto, simile a quello degli anni di Pinochet, che oggi è più che mai sorpassato. E, mentre i casi di repressione in nome della sicurezza aumentano, la prima linea della difesa occupa un ruolo fondamentale nelle proteste: sono all’ordine del giorno, infatti, gli scontri per le strade tra polizia e popolo. Quest’ultimo, solitamente associato alla forza maschile è, anche questa volta, come molte altre dimenticate dalla storia, gremito di donne coraggiose.

Si vestono di nero e riempiono i loro zaini. Rimpiazzano i quaderni con maschere antigas, occhiali protettivi, guanti e taniche di acqua con bicarbonato. Non dimenticano le loro carte d’identità. Prima di uscire di casa, si scrivono sul braccio il numero di telefono di un avvocato che possa aiutarle. Sanno che quel contatto potrebbe salvargli la vita. Escono in silenzio, per non destare troppa attenzione.

A qualche isolato da Plaza de la Dignidad, nome con il quale da mesi è stata ribattezzata la storica Plaza Italia - punto di convergenza sociale, che delimita il “barrio alto” dal “barrio bajo” di Santiago -, si legano i capelli e si coprono il viso con sciarpe e cappucci. La bandana, usatissima nel Cile degli anni 80 da parte dei gruppi della sinistra armata, in piena dittatura di Augusto Pinochet, è tornata di nuovo il simbolo della rivolta sociale. A pochi passi dall’epicentro, intravedono già le squadre delle Forze di Polizia che controllano il perimetro. A volte incontrano amiche, conoscenti o famigliari. Con cui, per precauzione, condividono la loro posizione in tempo reale su WhatsApp.

Dopo aver coperto il volto per essere completamente irriconoscibili, avanzano verso la zona degli scontri: la prima linea di difesa si posiziona tra le vie accanto alla piazza. È composta da uomini e donne - giovani per la maggior parte - protagonisti, dal 18 ottobre del 2019, di una lotta di strada. Sono cento, più o meno, dipende dalla giornata, e il loro scopo è quello di combattere la repressione della polizia. Tirano pietre, formano blocchi per rallentare il passo della polizia, spengono i lacrimogeni con acqua o con coni stradali, si aiutano fra loro.

La spontaneità dei loro gesti è intervallata da un desiderio di ordine e collaborazione. Non abbandonano la piazza finché la repressione della polizia non diventa più “tollerabile” o, nel migliore dei casi, fin quando non riescono a farla indietreggiare. Le loro richieste? Vogliono un Cile dignitoso. Un Cile per tutti, non solo per alcuni. E, fin dai primi giorni, sono riusciti a manifestare tutta la rabbia accumulata in questi anni,

Sono state, da quando è iniziata la crisi, una sorta di simbolo del popolo e motivo di grandi discussioni: sono stati sostenuti e romanzati, gli hanno attribuito il ruolo di eroi e di protettori delle masse. Ma sono stati anche criticati per l’aver rivendicato atti vandalici e di violenza sparsa. Quello che è certo, però, è che in questi ultimi quattro mesi di mobilitazione di massa, hanno formato una specie di scudo umano a protezione dei manifestanti dietro di loro. Come se marcassero il limite.

Lo scorso 14 ottobre, un gruppo di studenti liceali e universitari si è organizzato per occupare in massa la fermata della metro di Santiago, che aveva aumentato il prezzo del biglietto di ingresso di 30 pesos (da 800 a 830, ndr). Ma la ragione dell’occupazione non era dovuta solo all’aumento del costo del biglietto, ovviamente. Quello che era sembrato un atto impulsivo, incosciente, ‘da ragazzi’, si era presto trasformato in una micro rivoluzione dal motto “Occupare, non pagare, un’altra forma di lottare”. Nonostante il presunto progresso raggiunto durante gli anni della democrazia, durante i quali il PIL pro capite aveva raggiunto i 20.000 dollari, infatti, la disuguaglianza sociale era comunque molto alta.

La politica sociale focalizzata sui ceti più poveri della società - il cosiddetto modello chorreo - proposta dai Chicago Boys negli anni della dittatura, finì per rendere precaria la vita di molte persone, che dovettero indebitarsi anche solo per soddisfare le loro necessità primarie. Beni che, negli anni seguenti, quelli della privatizzazione, sono diventati beni di consumo. Se nel 2006 il 13,7% della popolazione cilena era povera, nel 2017 questa percentuale si è abbassata all’8,6%. Fermo restando che nel 2017 il 10% dei ricchi guadagnava 39,1 volte di più delle famiglie meno abbienti. E, come se non bastasse, secondo l’ultimo rapporto del Panorama Social de América Latina, stilato ogni anno dalla Comisión Económica de América Latina y el Caribe (Cepal), in Cile solo il 10% della popolazione è benestante, e solo l’1% è veramente ricco.

Mentre si sviluppava questa lotta collettiva, al suo interno se ne rafforzava un’altra, quella delle donne. In un paese in cui il divario salariale di genere è del 27% (Global Gender Gap Report, 2019), la popolazione femminile ha dovuto fare i conti con uno scenario di svantaggio perenne. Secondo la Encuesta Suplementaria de Ingresos (ESI), nel 2018 lo stipendio medio mensile delle delle donne ammontava a 474.900 pesos, contro i 652.400 degli uomini. Se a questo si somma il fatto che la violenza di genere è aumentata del 2,8%, dal 2012 al 2017, e che l’anno scorso sono stati registrati 62 casi di femminicidio - secondo il Red Chile contro la Violenza sulle Donne –, più che una cultura machista, il quadro che sembra dipingersi è quello di un enorme debito dello Stato nei confronti della popolazione femminile

Durante l’ultima Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, il gruppo femminista di Valparaíso, Las Tesis, ha raccontato al mondo questa triste realtà con una performance per strada chiamata “Un violentatore sul tuo cammino”. Attraverso un canto e una coreografia, hanno denunciato le violenze che le donne subiscono quotidianamente. L’esibizione si è trasformata nel giro di pochi giorni da un inno femminista di denuncia sociale a un fenomeno mondiale, replicato in decine e decine di città nel mondo.

Nella storia del Cile sono state tantissime le donne attiviste, da Gabriela Mistral a Violeta Parra, pochissime quelle che hanno svolto ruoli da “battagliere”. Oggi, invece, donne di tutte le età sono le protagoniste delle proteste sociali. Il futuro è incerto, ma loro non hanno intenzione di fermarsi, finché il Cile non diventerà un paese giusto, che possa rappresentarle. Cosa aspettano? Non lo sanno ancora con certezza, ma andranno avanti finché vorranno. Questa volta vogliono che si sappia che le donne sono state al centro di una rivoluzione. Queste sono le loro storie.

Paz (17)

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AlessandroCinque


L’11 dicembre Paz è uscita di casa, da Santiago Centro è andata fino a Plaza de la Dignidad. Era un mercoledì pomeriggio e, come tutti i soliti lunedì, mercoledì, giovedì e venerdì da quando è iniziata la rivolta, Paz si sistema tra le prime file della manifestazione. Era arrivata alle sei del pomeriggio, e aveva subito iniziato a tirare pietre contro le macchine della polizia. Erano quasi le otto quando un getto d’acqua fortissimo le colpì il viso, la polizia aveva deciso di allontanare con la forza i manifestanti. Tanta fu la forza del getto che Paz cadde a terra, svenuta. Quando si rese conto di quello che era successo, chiese aiuto. Tre incappucciati la fecero alzare, la portarono sotto la tenda dove medici e infermieri della Croce Rossa aiutavano i manifestanti. Le chiesero il suo nome, il numero della carta d’identità, le curarono le ferite; aveva un graffio sull’anca, un altro sul ginocchio, una distorsione al mignolo della mano sinistra. “Questo devi farlo vedere in ospedale”, le dissero. Però Paz non andò, mai. Andare in ospedale significava farsi dire che sarebbe dovuta stare a riposo.

Come Paz, sono moltissimi i giovani che decidono di alzare la voce contro le ingiustizie e gli abusi delle forze dell’ordine, subìte da loro e dai loro antenati. Sono trascorsi più di quattro mesi da quando sono iniziate le manifestazioni e Paz non smette di andarci. “Modificare la Costituzione è un primo passo, però è il sistema che va cambiato. Siamo stanchi, la società è stanca. Solo in pochi vivono bene, solo in pochi sono privilegiati. La maggior parte della gente vive una vita di angosce”, dice.

La Costituzione che vige oggi in Cile è stata approvata con un plebiscito l’11 settembre del 1980, in piena dittatura militare. In quel periodo storico, l’opposizione non aveva assolutamente accesso ai mezzi di comunicazione o ai registri elettorali. La prima versione del testo fu scritta dalla Comisión Ortúzar, con la partecipazione del fondatore della UDI (partito conservatore), Jaime Guzmán, e al processo di revisione parteciparono 50 persone, della quale solo tre erano donne. In questi anni la Costituzione è stata modificata spesso - è la più riformata nella storia del Cile - ma non si è mai elaborata una ‘versione democratica’. A dicembre, a seguito di un accordo firmato dai rappresentati dei vari partiti politici, è stato concordato che nell’aprile di quest’anno sarà indetto un nuovo plebiscito per votare a favore o contro la stipulazione di una nuova Costituzione.

E persone come Paz, che partecipano in prima linea alle manifestazioni, hanno un ruolo chiave. Se non va, si sente in colpa. Lei rappresenta anche tutte quelle donne che vorrebbero andare ma non possono, come sua nonna, malata di cancro, in attesa da quattro mesi che il sistema sanitario le conceda una visita in ospedale. O come sua madre, che aspetta un rimborso di tasse universitarie di 15.000.000 pesos. Paz partecipa anche per loro, e per spegnere la repressione delle forze armate. Paz partecipa perché i suoi genitori lavorano da cinque anni in miniera, nel nord del Cile, e riesce a vederli solo quando hanno abbastanza soldi per comprare un biglietto. Non si vedono da quattro mesi.

Ali (30)

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AlessandroCinque


Ali ha festeggiato il suo 30esimo compleanno in strada. Il giorno dopo della marcia che ha raccolto più di un milione di persone per le strade di Santiago, la più grande di sempre. Non è la prima volta che partecipa a una rivolta sociale: c’è stata la Revolución Pingüina del 2006, il primo movimento di massa dei liceali cileni, poi quella degli studenti del 2011, in cui aveva partecipato in prima linea realizzando performance artistiche, in quel periodo aveva appena incominciato a studiare danza.

Oggi il suo ruolo è cambiato. Fa in modo che le pietre tirate dalle prime file arrivino il più vicino possibile alle auto della polizia. Le mette dentro sacchetti o secchi, a volte le raccoglie direttamente fra le sue braccia. Il suo lavoro è un andirivieni continuo. Secondo lei è un po’ come ballare, lo esegue come una coreografia, immagina di essere su un palco sul quale si muove con agilità e leggerezza. “Stare qui significa essere sempre sotto pressione. Bisogna stare allerta, con il corpo e con la mente, non sai mai quello che può succedere da un momento all’altro. S’improvvisa, ci si adatta”, racconta. Il segreto, ci spiega, è essere veloce. Così non distogli gli altri dal loro lavoro, così schivi i proiettili. Il suo super potere è quello di trasformarsi in una pallina. Abbassata, si nasconde con la testa fra le mani e passa inosservata vicino alla polizia. Per questo Ali e le ragazze come lei si vestono di nero, si coprono la faccia, i tatuaggi, i capelli, tutto quello che potrebbe renderle riconoscibili. Per Ali, vestirsi così è anche un modo di annullare il suo essere donna, così da essere trattata come un ragazzo qualsiasi. “Non ci sono molte donne che vogliono fare quello che faccio io, raccogliere e sistemare pietre. Quando capiscono che sono una ragazza, è lì che si evidenziano tutti i mali della nostra società. Iniziano a trattarmi in modo diverso, pensano che io sia più debole, si sentono in dovere di dirmi cosa fare e dove andare. Non abbiamo bisogno di nessuno, vogliamo solo difendere la nostra posizione. A chi mi chiede se ho bisogno di aiuto, dico sempre che nel caso sarò io a chiederlo”.

Questo non vuol dire che non ci sia solidarietà fra i partecipanti alla rivolta sociale. Anzi. Mentre alcuni lanciano le pietre, altri spengono i lacrimogeni. Altri ancora caricano e scaricano le munizioni e, a partire da un certo momento, arrivano gruppi di persone che portano bibite energetiche e spuntini per chi è in piazza da ore. “Una volta la polizia mi ha accerchiata mentre stavo portando delle pietre a un gruppo di manifestanti che le aveva finite. Provavo a muovermi ma stavano sparando pallottole metalliche ricoperte di gomma. A un certo punto è spuntato un ragazzo senza maglietta che mi ha detto ‘andiamo, ti faccio da scudo’. Così siamo riusciti ad andare via.

Greta (29)

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AlessandroCinque

La prima volta che Greta provò a spegnere un lacrimogeno con un secchio d’acqua non le riuscì. Era confusa, si stancava subito, si muoveva con poca agilità. Guardando gli altri e imitandoli, è così che ha imparato come fare. In quei giorni, quando stava ancora imparando le tecniche, i carabinieri arrestarono un ragazzo che era al suo fianco e le spruzzarono un gas al peperoncino in faccia. Presero anche lei, le sequestrarono lo zaino, la buttarono per terra e la picchiarono. Una squadra di volontari dei Diritti Umani la portò al pronto soccorso per curarle le ferite. Quella notte sognò che qualcuno la seguiva ma lei non poteva scappare. Quando si svegliò, in ansia, non riusciva a respirare. Il giorno dopo, invece di farsi rapire dalla paura, ritornò per strada più forte di prima.

Greta lavora in una sala da tè, e quando finisce il turno, più o meno alle quattro del pomeriggio, sale sulla bicicletta e va a Plaza de la Dignidad. Nel suo zaino mette un cambio, una mascherina, occhiali e l’immancabile borraccia con acqua e bicarbonato. “Questa è la lotta di tutti. Accumuliamo rabbia da tanti anni, e questa è la nostra opportunità per fare finalmente qualcosa. Ho avuto esperienze vergognose. Mia nonna, la cui unica speranza è una risposta dal sistema di salute pubblica, è stata in lista d’attesa per un’operazione per mesi. Abbiamo dovuto portarla in una clinica privata, stava morendo”.

La famiglia di Greta sa che ogni giorno va a lottare in piazza. E sanno che non smetterà mai. La pregano solo di condividere la sua posizione con loro in chat, così da essere informati sui suoi movimenti in tempo reale. Ogni pomeriggio spegne dai cinque ai sei lacrimogeni. Sa che se non fosse per lei, alcuni dei manifestanti si sentirebbero male. E lo sa bene, perché lo scorso dicembre, ha provato sulla sua pelle cosa vuol dire avere un’ustione alla caviglia o soffrire di dermatite acuta per via dei getti d’acqua lanciati dalla polizia.

Un rapporto elaborato dal Movimiento Salud en Resistencia - una delle tante iniziative nate durante gli scontri grazie a professionisti e studenti di medicina che prestano vari servizi ai manifestanti - ha rivelato che l’acqua utilizzata dalla polizia a dicembre conteneva soda caustica. L’analisi, respinta poi dal governo, ha esaminato i casi di moltissimi ragazzi che avevano avuto reazioni allergiche e lievi ustioni a seguito del lancio dei getti d’acqua.

“È così tanta la violenza che si vede per le strade che abbiamo tutti sempre più incubi la notte. Gli scontri ci consumano fisicamente e mentalmente. A volte mi deprimo perché non so quando finirà mai questa situazione. Vorrei lasciar perdere tutto e pensare ad altro, tornare alla normalità, alla mia vita di prima, che però oggi mi sembra così vuota. Poi però mi rendo conto che se siamo arrivati fin qui non possiamo fermarci”, dice Greta.

Daniela (20)

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AlessandroCinque


Ha sentito come una catarsi, Daniela, partecipando alla performance di Las Tesis. “La colpa non era mia, né dove andavo o come vestivo”, è stata la strofa che l’ha aiutata a capire che doveva smettere di sentirsi in colpa per l’abuso sessuale di cui era stata vittima. “Il testo della canzone era molto forte e diretto, si tratta di qualcosa che le donne vivono ogni giorno, e che spesso tendiamo a normalizzare”, racconta.

Durante una marcia vicino a La Moneda, la casa presidenziale, svenne a causa dei gas lacrimogeni. Ma non decise di abbandonare il campo, tornò direttamente il giorno dopo. “È stata una cosa così esasperante che ho pensato che nessuno doveva viverla mai più”. È così che ha iniziato la sua lotta in piazza insieme a coloro che spengono i lacrimogeni tra le prime file della manifestazione.

L’anno scorso ha iniziato a studiare Scienze Motorie all’Università di Santiago. Lì ha conosciuto un mondo diverso da quello cui era abituata: alcuni dei suoi colleghi aspettavano mesi per fissare un appuntamento per una visita in ospedale. È in quel momento che si era resa conto di quanto fosse stata fortunata. “I miei genitori non capiscono perché appoggio il movimento, non mi è mai mancato nulla. Ma il motivo è proprio questo. Non è possibile che alcuni hanno più opportunità di altri, soprattutto quando si tratta di servizi primari che hanno a che fare con la dignità delle persone”.

La riforma del sistema sanitario è una delle richieste primarie da parte del movimento sociale. Secondo i dati forniti dalla OCDE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ndr), il Cile è il terzo paese che spende di più di tasca propria per pagare i servizi alla salute. In più, nel 2018 si contano 26mila morti in lista d’attesa per gli ospedali pubblici.

I genitori di Daniela non sanno che fa parte delle prime file del movimento. E da poco ha scoperto che anche suo fratello di 18 anni ha seguito il suo esempio. Non se lo erano mai detti, si sono incontrati per caso. “La gente ti guarda e ti chiede se hai bisogno di qualcosa, se stai bene. Non avevo mai provato una sensazione di unione così forte”.

Francisca (19)

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AlessandroCinque


Francisca vive con suo padre e un amico a La Cisterna, comune a sud di Santiago. Da ottobre, hanno deciso di prendere parte insieme alle manifestazioni. Francisca è quella che arriva prima di tutti per individuare i carabinieri: fa un giro, capisce in che zona si sono installati e avvisa tutti gli altri. Una volta riuniti organizzano un piano d’azione, si dividono in base ai ruoli e si danno un orario e un luogo di ritrovo. Di solito è alle 21:45, quando è già buio, quando la polizia inizia ad attaccare i manifestanti per disperderli.

Suo padre lancia le pietre, il suo amico gli fa da scudo provando a ostacolare le forze armate. Francisca che non ha molta forza nelle braccia, rimane un po’ indietro, distribuisce fazzoletti, mascherine, acqua con bicarbonato. Se si accorge che qualcuno è ferito, se ne prende cura, chiama un infermiere o un medico. “Questa è una lotta di gruppo. Tutti proteggono tutti. Io e mio padre, ad esempio, facciamo parte di due diverse generazioni ma siamo uniti dalla causa”, racconta. “Non ci unisce un partito politico o una bandiera, ci unisce la voglia di vivere con dignità. Ed è questo quello che ci rende tutti fratelli qui. Ho provato paura, come tutti, però la trasformo in rabbia contro la polizia, un sentimento ancora più forte della paura”.

Il 25 ottobre, durante la marcia più importante della storia del Cile, il padre di Francesca è stato colpito da tre proiettili sulla spalla, e uno a due centimetri dall’occhio. C’è voluto un intervento per toglierlo. A lei, invece, un proiettile le ha sfiorato la spalla lasciandole un ematoma. Da quel giorno hanno fatto un patto, hanno deciso di smettere di andare alle marce. “Credo che la prima linea sia abbastanza eterogenea, ognuno crede in qualcosa, per questo la gente si raggruppa per età, generi, ceti socioeconomici diversi. Quello che ci unisce è, soprattutto, l’aver provato sulla nostra pelle cosa significa essere discriminati da un sistema ingiusto. Io lo vedo ogni giorno all’università, quando i miei colleghi si disperano perché non riescono a pagare le tasse. O con mio zio, che ha un tumore al rene e ogni giorno spera si liberi un posto per lui in ospedale. Quando ti rendi conto di tutto questo, non puoi più tornare indietro”, continua.

Da quando è incominciata la rivolta, Francisca ha iniziato a litigare con sua mamma. “Non è d’accordo con il movimento, né con il motivo per cui stiamo protestando, per questo si tratta di una lotta che ho vissuto legata a mio padre”, racconta. Da ottobre, infatti, sono tantissimi i casi di famiglie e amicizie sbriciolate a causa delle diverse opinioni socio-politiche. “Al contrario di quello che si vede in televisione, credo che la gente ci apprezzi. Vede che siamo dei battaglieri, che stiamo facendo tutto questo anche per chi non può uscire di casa a marciare. E se mi chiedi fino a quando ho intenzione di farlo, beh, non lo so esattamente. Però se abbandoniamo adesso, non conquisteremo niente di quello per cui abbiamo lottato. Ti direi, finché tutti abbiano uno stipendio giusto, finché l’educazione sia gratuita e di qualità, finché non ci sia più segregazione sociale e che il nostro futuro non sia influenzato da quanto guadagnano i nostri genitori oggi. Finché non avremo una vita giusta e dignitosa”.

A marzo secondo i dati rilasciati dall’ultimo rapporto dell’Instituto Nacional de los Derechos Humanos (INDH), il numero di persone ferito durante le rivolte sociale è di circa 3.765. Di questi, 439 sono donne. 445 persone hanno riportato ferite agli occhi e 34 di questi hanno subìto la perdita completa della vista. Ci sono poi 271 persone ferite dai lacrimogeni e 2.122 da proiettili, pellet e pallini da caccia.