Non si sa se sia un caso o una scelta editoriale, sta di fatto che in questo momento su Netflix ci sono due prodotti “gemelli”: una mini serie (quattro puntate di meno di un’ora ciascuna) intitolata Unorthodox e un documentario di un’ora e mezza, One of Us, sullo stesso argomento: la fuga dei giovani (Millennial, più o meno) dalle comunità di ebrei hasidici.

Né il documentario né la miniserie liquidano la questione ideologicamente e questo è un grande merito, c’è equilibrio in entrambi i racconti.

One of Us, diretto da Rachel Grady e Heidi Ewing, ha raccolto, in collaborazione con un’associazione di sostegno ai fuggitivi, una serie di storie vere di ex hasidici che, tra mille difficoltà, provano a rifarsi una vita. Cercano lavoro, cercano un posto nel mondo, si accorgono subito che la libertà, per chi viene da un universo così chiuso (no scuole normali, no cellulari, no Internet) ha un prezzo altissimo. Inoltre, alcuni di loro ammettono, di sentire la mancanza di certi momenti di unione familiare

e il senso di sicurezza di vivere isolati dal mondo, parlare solo yiddish.

Ma la nostalgia della challah (un tipo di pane) di mamma non basta a rinunciare alla voglia di esplorare che cosa c’è fuori. Unhortodox, che si basa sul memoir di Deborah Feldman, scrittrice che ha abbandonato la comunità hasidica in cui era nata e cresciuta, è interpretato da Shira Haas, attrice israeliana di grande carisma e bravura, già vista in un’altra bella serie di Netflix, Shitsel, anche questa ambientato nel mondo degli ortodossi, ma a Gerusalemme. Somiglia un po’ a una giovane Jeanne Moreau e un po’ a Natalie Portman con cui, tra l’altro, ha anche lavorato: era una delle interpreti di Sognare è vivere, tratto da Amos Oz, prima regia della star del Cigno Nero.

In Unorthodox, Shira Haas si chiama Esther detta Esty e fugge da Brooklyn dove non può seguire la sua passione (diventare musicista), dove è stata costretta a sposarsi con uno che ha visto cinque minuti e con il quale non riesce a fare l’amore, questione di cui si impiccia tutta la famiglia. Esty va a Berlino dove vive la madre, fuggita anche lei in passato e ripudiata da tutti, figlia compresa che, però, adesso non ha altri a cui rivolgersi. Marito e cognato vengono spediti dal rabbino a recuperare la ragazza.

Nel frattempo, con un colpo di fortuna degno di un eroe da romanzo picaresco, Esty ha fatto amicizia con un gruppo di studenti musica. Insieme a loro scopre, per la prima volta in vita sua tutto ciò che nel mondo che ha lasciato è ignoto e proibito: libertà sessuale, Google (che Esty non sa che cosa sia), le serate in discoteca fino a un modo diverso, secolare, di essere ebrei. Questo è rappresentato dal personaggio della violinista del gruppo che, sbrigativamente e con un certo disprezzo, spiega agi altri che la comunità da cui proviene Esty è fatta di fanatici che usano le donne solo come macchine per far figli. Esty, benché in polemica con i suoi a Brooklyn, ci resta male,

in bilico com’è tra chi era e chi vorrebbe essere.

Non solo: inorridisce all’idea che i suoi nuovi amici possano fare il bagno in un lago proprio di fronte al luogo in cui Adolf Hitler decise lo sterminio degli ebrei. “Un lago è un lago” le dice il ragazzo tedesco che è attratto da lei (e viceversa). Già: un lago è un lago. Ma anche un simbolo è un simbolo. Unorthodox e One of us parlano di questo: del bisogno di avere dei simboli e anche della necessità di liberarsene.