Per una volta l’intervista telefonica non è un ripiego. Barbara Chichiarelli è blindata nella sua quarantena romana, come noi nella nostra. «Ah ma io ho iniziato prima degli altri qui, mi sono assestata subito sull’asse lombardo. Non mi capacitavo che la gente intorno non riuscisse a vedere cosa stava succedendo, sono dovuta anche venire a Milano a fine febbraio per lavoro ma dicevo “Ragazzi, perché giriamo lì?”». In ogni caso ci rassicura. Sta benissimo, ringrazia il cielo di aver scelto una casa con un terrazzo grande su cui srotola il tappetino per fare stretching. Ha anche un’amaca, per dire. In Favolacce, favola nera sulla disfunzionalità delle relazioni familiari dei fratelli D’Innocenzo che ha vinto il premio per la Miglior Sceneggiatura a Berlino, recita accanto a Elio Germano. Il film sarà presentato sabato 23 maggio alle 21 sulla piattaforma Miocinema dai registi, e poi resterà in catalogo. Come avrebbe fatto la sua Livia Adami di Suburra (in mezzo ci sono stati tra l’altro il teatro, la serie La compagnia del cigno di Ivan Cotroneo e La dea fortuna di Özpetek), Barbara non si assoggetta all'idea di un'intervista in punta di forchetta. Dice quello che deve, come vuole.

Partiamo dall’inizio? Lei da dove viene, chi è?
Nata a Roma, zona Aurelia, in un quartiere relativamente fuori, per misurare il grado di perifericità del quale potete basarvi sul fatto che la metro arrivò quando ero al secondo anno di liceo (classico, il Mamiani). Mia mamma era impiegata alla Asl, mio padre era contabile in un’azienda di macchinari. Due lavori semplici. Ho studiato all’università Scienze dello spettacolo ma non mi sono laureata, a pochi esami dalla fine della triennale ho mollato per due accademie tra cui la Silvio D’Amico. Ora che sono ferma a casa mi è venuta voglia di finire gli studi, fare una magistrale, magari in Lettere moderne. Mi divido tra teatro e cinema e ho velleità registiche. Solo che per il teatro mi sento pronta, per il cinema mi mancano delle competenze che devo acquisire.

E Favolacce? Non è un’altra tappa importante?
È un film coraggioso che non si conforma alla narrazione all’italiana e ai tempi cinematografici. Il racconto procede a tratti in modo estremamente lento aiutando a fare entrare lo spettatore nella storia e quindi alla fine è funzionale. Perché c’è bisogno di un tempo per capire le cose, di cui si disinteressa l’intrattenimento attuale, troppo impegnato a bombardare di immagini e a narrare di corsa. Che serve a distrarre, ma è il contrario di quel che vuol fare Favolacce. Sarà un film perfetto per il dopo pandemia, che ha costretto le famiglie a stare a stretto contatto. E poi viene raccontato in modo sublime il tema della noia nell’infanzia. Io mi sono riconosciuta molto, la mia è l’ultima generazione che ha vissuto profondamente questa dimensione, senza tecnologia qualcosa bisognava inventarsi e si diventava molto creativi, soprattutto in estate.

Ma adesso qualche aperichat per svagarsi lo starà facendo?
Non riesco ad adattarmi a questo meccanismo, come non riesco, che ne so, a guardare una serie mentre mangio e intanto chatto su WhatsApp. Ma credo che tra un po’ saranno tutti saturi, perché questa relazione con lo spazio, gli oggetti e le persone non è sufficiente. Ci vuole il silenzio. Bisogna ritrovare la bussola, cioè il come e il perché.

Usciremo diversi dal Covid-19?
In questi giorni non sopporto le persone che già fanno teoria: il coronavirus ci ha insegnato questo e quello. Un attimo! Nell’economia di una vita 40 giorni o giù di lì non sono niente e non è che vedremo tutti la Madonna. Penso anche che non sia necessario che tutti improvvisamente vengano illuminati dalla verità. Però chi scrive, recita, dirige e gli artisti in generale, dopo questa fase avranno una grande responsabilità sociale. Con le nostre proposte e i nostri lavori potremo fare in modo che questa situazione diventi proficua per tutti, elaborandola.

La cosa più difficile da affrontare in questi giorni e una gioia inaspettata ricavata dalla pandemia?
Ovviamente c’è la preoccupazione per le persone a cui voglio bene, mi sono resa conto di quanto il controllo faccia parte di me e sapere di non poterlo avere, per quanto voglia fare io la spesa ai miei e dica a tutti di mettersi i guanti... Prima o poi si deve mollare. Il buono è il tempo per guardarsi allo specchio e mettere mano a progetti rimandati, anche se noi attori come categoria siamo i meno colpiti dalla quarantena. Non abbiamo mai avuto delle routine rigide, aspettiamo spesso a casa che ci chiamino e intanto guardiamo film, pensiamo, leggiamo.

Qual è il suo incubo ricorrente?
Io che perdo completamente la memoria prima di andare in scena. Ha presente Birdman, quei corridoi teatrali di Broadway (dove non sono mai stata)? Ecco, mi trovo lì. Negli anni il sogno si è sofisticato. Adesso sono sempre lì e un collega mi ferma e mi dice «Ma come, non hai letto l’email? Hanno aggiunto un altro monologo alla tua parte». Finisce sempre prima che io sia sul palcoscenico, per ora. Comunque mi serve, perché poi ripasso tutto.

Lei non mi sembra un tipo molto ansioso, comunque. Era così anche da ragazzina?
Ho sempre seguito quello che volevo fare. Da adolescente ero molto sbadata, più che altro, e a Roma, se vai in motorino, non te lo puoi permettere. Ho avuto molti incidenti, mi sono rotta varie volte il crociato e non posso più fare sport agonistico. Se ho un rimpianto è di essermi preclusa così una carriera nella pallavolo. Ero brava.

Qualche altra abilità che teneva nascosta?
Be’, durante l’Accademia ho sempre fatto dei lavoretti per mantenermi. Il passaggio più formativo è stato da cameriera a barlady: non avevo fatto corsi da barman o bartender e mi sono un po’ inventata il mestiere. Il bello è che ho lavorato sempre in posti chic, quindi lo standard era molto alto e dovevo sfruttare la capacità attoriale, la presenza, per gestire situazioni critiche e clientela dalle grandi pretese. A volte facevo finta che fosse finito il lime e andavo in cantina a prenderlo, cioè leggevo il libriccino con la ricetta dell’old fashioned, poi tornavo, due battute e una citazione e via. Lo dico ai ragazzi giovani che vogliono fare l’accademia: intanto lavorate, e il bar è perfetto. Ti interfacci con moltissime persone diverse, devi entrare in empatia, devi mettere in gioco molte delle competenze che ti servono sul palcoscenico.

Sì ma i cocktail li sa fare? Il suo cavallo di battaglia?
Sono brava con lo shaker, lavoro bene di spalla, direi il Vodka Sour. Ma anche il Martini Cocktail, che, ho scoperto, è il cocktail per testare le capacità di un bartender. Un po’ come il filetto alla Wellington per uno chef, quella cosa che se non la sai fare si vede subito.

E gli anni che passano cosa le hanno insegnato?
Col tempo sono diventata più brava a perdonare. Il che è successo solo quando ho imparato a dire più volte questa magica parola che è “scusa”. E poi perdendo un po’ di tono e muscoli, col corpo più fragile, mi concedo anche la fragilità dell’anima. Adesso riesco addirittura ad accettare di farmi proteggere dagli altri.

Un’emozione dell’infanzia che porta con sé?
A quattro anni sulla giostra, quella che a Roma chiamiamo calci in culo. La sensazione di volare, di paura che si stacchi il seggiolino mista a piacere, di sfida vedendo le cose da un’altra prospettiva, dall’alto. Ricordo anche il dopo, vomitai tutta la colazione. Il brivido dell’incoscienza ha il suo prezzo.