Nelle interminabili settimane in cui non ho visto mia madre, perché confinata in un'altra città, lei ha ricominciato a ridere al telefono con me. Sembra poco, ma è una rivoluzione. L'appuntamento, da sempre, è alle dieci di mattina. E pur con tutto l'amore che ci lega –l'unico figlio, tanta vita a due dopo la separazione da mio padre, un lavoro insieme– devo ammettere che fino a poco tempo fa e salvo rare eccezioni, da quella chiamata io uscivo piuttosto abbacchiato; mi sentivo un po' il telefono amico per i suoi guai, da infelicità banali a questioni più serie. Lei ha ottantacinque anni, vive da sola ed è indipendente fino al midollo; tranne quando si tratti di me. Era un ruolo necessario, se non altro per riconoscenza, per orbite generazionali; però dentro di me, io sapevo benissimo che lei poteva essere meglio di così per sé e quindi per me e gli altri; tirare fuori non il problema ma la grinta, lo sprint e quell'eccentrico coraggio di fronte alle prove dell'esistenza che le aveva permesso di attraversarla alla grande. Era accontentarmi di una parte soltanto di mia madre, dispiaciuto che l'altra restasse, chissà perché (ho pensato spesso a un vezzo infantile), nascosta. Mi stavo abituando, ma era guardare un'artista incaponirsi a fare dei disegnini, potendo dipingere capolavori.

Poi è arrivata quella telefonata delle dieci e cinque. L'ora è pattuita, lei prima legge tanti quotidiani: c'è un rapido confronto sulle notizie, poi si affronta il tema del giorno e che, in sottofondo, ha sempre a che vedere con il nostro legame, il domandare a me che faccio? Nelle sei settimane di lontananza già trascorse prima della chiamata, avevo avuto modo di scoprire che, di fronte alle difficoltà severe introdotte dalla pandemia nella quotidianità, in mezzo ad assilli pratici e mentali, sola nel risolvere complicazioni casalinghe, approvvigionamenti alimentari, problemi(ni) di salute, lei era tornata la lottatrice gagliarda di un tempo; di tutta la famiglia, era indubbiamente chi, in proporzione, avesse reagito meglio. Certo, mi dicevo lei ha conosciuto la guerra, e il dopo, povero e durissimo. La sua metà nascosta si era riaffacciata: di fronte alla battaglia, era salita sulle barricate. Quella mattina ha fatto un passo in più. Proprio perché immobilizzati, ho capito, si corre a velocità folle verso gli affetti.

Mentre digitavo il suo numero, ero combattuto. Metà famiglia stava con me in un paesino toscano, metà a Milano, tra cui lei. Ogni giorno guardavo ai notiziari in cerca di un parere per stabilire quando sarebbe stato giusto che io tornassi al nord. Quando le ho esposto la mia incertezza, mi ha interrotto.

Stai lì, aspetta, non metterti in viaggio.

Non era solo il benvenuto messaggio libera tutti per la mia ansia di equilibrio (comunque introvabile). È stato il tono: protettivo, improvvisamente solido, un invito tenero a occuparmi di me, il contrario del contenuto abituale delle telefonate. In una parola: materno. Non voglio equivocare: è stata “materna” a modo suo, ma da qualche anno non trasmetteva queste vibrazioni, non così. Scoprire che si preoccupava per me è stato emozionante.

Che io sappia di poter mettere su una pagina di giornale le debolezze nostre, rivela quanta verità possa scorrere tra noi, un'espressione dell'unicità del nostro rapporto. Intanto mi sono goduto un regalo raro quanto un ricordo d'infanzia ritrovato, di più, rivissuto. Ho pensato al romanziere Ben Marcus quando, nel racconto Che cos'hai fatto? (dalla raccolta Via dal mare, edizioni Black Coffee) scrive «Questo era il grande regalo che sua madre sapeva elargirgli: farlo sentire bene per cose assolutamente banali».

E poi sono tornato, ci siamo rivisti. E ovviamente, dovevo prevederlo –poiché con la mia presenza, la “guerra” diventava meno incombente, meno eroica la sua resistenza– nelle telefonate delle dieci e cinque, sono pian piano ricominciati i lamenti. Però meno di prima, alternati a timide risatine, perché ora lei sai che io ho avuto conferma che la sua grinta e il suo coraggio sono ancora lì, pronti a saltar fuori nel momento del bisogno.