C'è un momento della vita in cui le 8 giovani protagoniste del documentario Il nostro Paese di Matteo Parisini hanno realizzato di non essere proprio come i loro amici o compagni di classe. Sono cresciute in Italia, italiane di fatto ma senza cittadinanza. Si sono formate con insegnanti che dicevano loro che con impegno e studio sarebbero potute diventare quel che volevano. «E invece non era esattamente così. Io l'ho capito l'anno della maturità», racconta Insaf Dimassi, italo-tunisina di 23 anni, oggi studentessa di scienze politiche a Bologna. «Era già qualche anno che mi impegnavo politicamente nel mio paese in provincia di Modena, ero diventata anche rappresentante di istituto, quindi quando l'allora candidato sindaco mi chiese di candidarmi alle elezioni locali nella sua lista ero entusiasta. Avrei compiuto 18 anni a breve, sembrava perfetto. Ma non potevo. Non avevo la cittadinanza italiana».

E di lì a poco un'altra circostanza kafkiana l'avrebbe resa "diversa" persino dalle sue sorelle: «Quando avevo 18 anni e venti giorni mio padre, dopo molti anni, è riuscito a ottenere la cittadinanza italiana ma l'ha potuta trasmettere solo alle mie sorelle all'epoca minorenni», spiega Insaf, che oggi, da studentessa universitaria non ha il reddito sufficiente per chiederla in modo indipendente. «Lavoro già come mediatrice culturale da arabo, francese e inglese ma non guadagno abbastanza. La clausola del reddito, poi, prevede che debba essere costante per tre anni e, se c'è un buco temporale, si ricomincia a contare da capo. Quanti ragazzi della mia età, anche italiani, possono vantare una condizione di stabilità lavorativa simile?», si domanda, «è un criterio legato a un'idea del mercato del lavoro poco realistica. Paradossalmente avrei avuto maggiori possibilità se fossi andata a lavorare a 18 anni e non avessi continuato a studiare. Ma io credo nello studio e nella cultura e non volevo rinunciare al mio diritto all'istruzione».

Il nostro Paese di Matteo Parisini (in onda venerdì 4 settembre su RaiTre in seconda serata e poi disponibile sulla piattaforma RaiPlay) è un documentario corale che racconta la vita di 8 ragazze come Insaf, in giro per la provincia italiana. Tutte loro devono gestire complicazioni burocratiche di ogni tipo, che si scontrano con le aspirazioni di una vita libera e che dia loro accesso a tutte le opportunità. Alessia, 19enne nata in Russia, è campionessa di taekwondo e sogna di partecipare alle competizioni per la nazionale italiana. Anna, nata a Napoli da genitori senegalesi, deve rinnovare il suo permesso di soggiorno ogni anno. Ana Laura, nata in Brasile, oggi vive a Trieste e racconta in un vlog le frustrazioni di non essere riconosciuta e del non poter viaggiare liberamente.

Per Insaf ogni occasione è utile per poter prendere in mano la narrazione della sua condizione, che poi è quella di circa un milione di bambini, giovani donne e uomini, italiani di fatto ma non per la legge: «Dall'ultimo tentativo fallito di riforma della cittadinanza la questione è stata monopolizzata dagli schieramenti politici a fini elettorali. E intendo sia a destra che a sinistra. Da una parte c'è chi dice "gli immigrati sono tutti buoni e bravi, diamo loro la cittadinanza", buttandola sostanzialmente in caciara e usando il tema solo in opposizione alla destra, senza affrontarne la complessità. Dall'altra si tenta di sovrapporre la questione al problema dell'immigrazione irregolare con slogan come "non possiamo dare la cittadinanza a tutti quelli che sbarcano sulle nostre coste". Ma in realtà è un problema concreto, di vita reale, che riguarda il futuro dell'Italia».
Ogni volta che partecipa a un dibattito pubblico Insaf cerca di raccontare la concretezza della sua situazione, il fatto di non poter partecipare a concorsi pubblici o votare alle elezioni politiche: «Ho un permesso di soggiorno permanente, almeno non mi devo preoccupare di rinnovarlo, e posso viaggiare nell'area Schengen. Ma quando me l'hanno rubato insieme al portafogli, ho dovuto attendere un anno per riaverlo. Un anno intero in cui non sono potuta uscire dai confini italiani».

E poi c'è la questione affettiva. «Che per me viene comunque prima di tutte queste cose materiali. Sono nata in Tunisia e arrivata in Italia a soli 9 mesi. Sono nata con due mamme. Una mamma biologica, la Tunisia, che mi ha dato la vita, non la rinnego, amo la ricchezza culturale che mi rende ciò che sono. L'Italia è come una mamma adottiva, che mi ha cresciuta, accolta, mi dato strumenti e valori. Le cose che conosco, il modo in cui ragiono, mi sono stati dati dall'Italia: ma la mia mamma adottiva non mi riconosce. È come se sentissi questo rifiuto, ti senti cresciuto, accolto, ma non riconosciuto al pari degli altri figli. È come se mi dicesse: "Non sei abbastanza rispetto agli altri"».