Martedì 23 agosto 2016, Stefania Svizzeretto si scambia messaggi WhatsApp con la sorella Floriana. «Ma che fai ancora ad Amatrice? Torna a Roma, ormai la stagione del turismo è agli sgoccioli, il museo non ha più bisogno di te». «Io ci sto bene. Questa è la mia seconda casa. Anzi, sai che ti dico? Meglio di qua ci sta soltanto il Paradiso». Mercoledì alle 3,36 – cioè poche ore dopo - la cittadina viene polverizzata da un terremoto che l’annulla, la umilia, la distrugge: soprattutto nel suo cuore più antico e vibrante, il centro antico. Esattamente dove Floriana Svizzeretto, storica dell’arte e ricercatrice specializzata nel Rinascimento veneziano, ha fondato - insieme alle due studiose Alia Englen e Brunella Fratoddi - e diretto per oltre dieci anni il Museo Cola Filotesio. Lo aveva voluto fortemente sia per rendere omaggio al poco conosciuto artista allievo di Raffaello, sia per sganciare la località dalla ricetta di un piatto di pasta conosciuto sì in tutto il mondo, ma di certo lontanissima da spirituali tensioni culturali. Floriana aveva contribuito alla metamorfosi di Amatrice patria della pur saporita amatriciana a italiana e suggestiva “città dalle cento chiese”. Stefania, suo marito e la figlia Giulia, tornati da Amatrice pochi giorni prima, sanno del sisma dal web. Poi dalla tv. Poi dai parenti che vivono nei dintorni della località laziale. Dicono che il museo è venuto giù e si è sbriciolata anche la casa accanto, dove abitava Floriana, dispersa. Il suo telefono è muto. Monta l'angoscia. «Abbiamo anche aperto una pagina su Facebook per tentare di rintracciarla».

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Il contatore dei morti sale vertiginosamente, passano giorni in cui alla speranza subentra l’incertezza, all’incertezza la disperazione: «Il peggio è stato aspettare e, nel frattempo, essere chiamati per vedere foto spaventose di famiglie, bambini, ragazzi schiacciati sotto le macerie. Niente. Finché nostra zia ci ha detto che ad Amatrice avevano allestito due tendoni con tutte le salme non ancora riconosciute: Floriana era lì. Aveva 59 anni». Sono al telefono con Stefania, oggi Presidente a Roma dell’Associazione Culturale Aregoladarte (aregoladarteassociazione.it) ideata con la terza sorella Raffaella, una delle più importanti restauratrici di opere lignee. «Siamo sempre stati una famiglia col pallino della cultura. Papà era ingegnere per hobby, ma ha sempre studiato la storia di Roma nei suoi risvolti esoterici e alchemici. Battibeccava con mia sorella, dal carattere spigoloso, ma dolcissimo con chi amava: ai funerali ho detto che mia sorella avrebbe avuto qualcosa da ridire sul mio discorso funebre ma non su quello della nipote, mia figlia Giulia. Pensa che già a 9 anni, Floriana le aveva insegnato a fare le visite guidate alle classi elementari».

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Stefania ora a è a Venezia: benché siamo amici da trent’anni e sono abituato a quella gentilezza sorridente che la contraddistingue anche quando parla di cose terribili, sento che è emozionata, le trema un po’ la voce. Stasera, alla Mostra del Cinema di Venezia, presentano Polvere, docu-film ideato da lei e Raffaella, per l’occasione anche coproduttrici («sapessi la fatica per recuperare i soldi! Gli italiani sono così: generosi nell’immediato ma con la memoria corta, e soprattutto un po’ troppo disincantati»). Grazie al produttore Sandro Bartolozzi, la produttrice esecutiva Barbara Meleleo e ad alcuni sponsor (l’Antica Birreria Peroni e DM3 – Cross Meda Agency) e al patrocinio del Comune di Amatrice, della Regione Lazio, del Mibact e della Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per le province di Frosinone, Latina e Rieti.

Girato dal regista Simone Aleandri in un austero bianco e nero («con il terremoto, Amatrice ha perso rumori e colori»), ha un titolo che rimanda sia al sedimento depositato ovunque dopo la tragedia, sia alla speranza che la polvere - come la neve che copre i germogli in un paesaggio invernale - qui potrebbe aver difeso quello che ha coperto. Ma che è da far tornare alla luce. La sceneggiatura è di Simone Aleandri e Roberto Moliterni, con la collaborazione di Vincenzo Carpineta. Continua Stefania: «Non è un film su mia sorella, ma sul potere dell’arte come collante che tiene unita ogni comunità. Per fortuna, Floriana aveva fatto studiare delle teche antisismiche per i lavori più importanti, che così sono rimasti protetti per essere ritrovati dai pompieri. Le forze armate hanno contribuito in maniera fondamentale al salvataggio di persone e oggetti, e ad Amatrice siamo loro estremamente grati. Infatti, la locandina è uno scatto dove un pompiere ha appena estratto un quadro dalle macerie». Questo documentario ricostruisce il percorso di recupero dei pezzi d'arte dopo il sisma attraverso le storie di chi, dopo Floriana, se n’è preso cura. Don Luigi, esile ma energico prete di montagna di 88 anni, è stato incaricato dalla curia di sorvegliare lo stato delle cose. Luciana, che lo aiuta, ha rischiato la vita per salvare gli arredi dalle chiese quand'erano ancora pericolanti. Vito ha perso il suo negozio di antiquariato, ma continua a restaurare statue. Mentre Cico, giovane scultore, insegna ai bambini di Amatrice a esprimere i traumi attraverso l'arte. Brunella Fratoddi, la co-fondatrice del museo, ora lavora per il Comune e, tutte le volte che entra in zona rossa, fa i conti con i propri ricordi. Amatrice diventa così emblema del modo in cui l’arte viene tutelata e reinventata per rifabbricare la memoria e la coesione sociale.

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«La collettività ha ritrovato nel recupero dell’arte l’identità di luoghi, persone, vite perdute: del resto nel museo c’erano anche croci che venivano usate per le processioni che quindi erano quindi la metafora dei suoi abitanti», continua Stefania. «E loro vogliono rinascere proprio coltivando i loro simboli: quando è stato proposto di trasferire le opere in un’altra città, c’è stata una mezza rivoluzione. E non c’entra nulla la preparazione culturale. Ti racconto un aneddoto: un pastore che portava il suo gregge vicino al santuario del XV secolo della Madonna di Filetta, patrona di Amatrice, un tempo completamente affrescata e ora ridotta a un rudere, dopo il crollo era completamente spaesato, senza più alcun punto di riferimento né religioso né allegorico. Lì si fermava, diceva una preghiera: era un luogo della sua geografia emotiva, insomma: da allora ha cambiato, dopo una vita, il percorso da far fare alle sue pecore. Rifare quello di prima era troppo doloroso, ormai senza alcun significato».

Com’è la vita, oggi, ad Amatrice? «Bloccata, cristallizzata, arresa. Moltissime persone vivono in anonimi prefabbricati e da quell’agosto 2016 – questo non l’ha riportato nessun giornale – è aumentata vertiginosamente la percentuale dei suicidi: chi ha perso i cari, il lavoro, la casa, i soldi, spesso non vuole perdere la dignità. Il centro è ancora semidiroccato. Per andare avanti nei restauri, di cui si occupa anche mia sorella Raffaella, non servono solo soldi, ma si devono attraversare trafile burocratiche peggiori del più inquietante romanzo di Kafka. Certo, hanno riaperto i ristoranti per l’amatriciana ed è stato inaugurato un centro commerciale ideato da un famoso architetto: ad Amatrice lo chiamano “la prigione”. Ecco, speriamo che questo film causi in chi lo vede un altro terremoto: quello delle coscienze», racconta Stefania. Che conclude: «Sai cosa abbiamo trovato, dopo la morte di Floriana, in ufficio? I suoi appunti. In una pagina c’era scritto: “L’arte annienta la morte perché sopravvive agli uomini. Dal momento in cui è generata, se di grande qualità, supera e scavalca i secoli, affascina le generazioni e vince il tempo”. Lo abbiamo usato come pubblicità per diffondere il film, che verrà prima proiettato nei cinema e poi in televisione, speriamo presto. Per ora siamo felici di presentarlo a Venezia e in seguito alla Festa del Cinema di Roma».