Notturno? È stato il primo titolo che ha avuto il film, perché all’inizio doveva essere girato solo di notte. Non conoscendo quel mondo, pensavo che la notte mi avrebbe protetto. Poi però, una volta lì, della notte è rimasta la penombra con le luci, la pioggia e una meteorologia molto forte. La grande sfida è stata quella delle nuvole che considero un po’ il coro greco co-protagonista del film. Aspettarle è stato un modo per vedere le trasformazioni di ambienti e persone. Quando giro cerco un racconto, la complicità della luce che trasforma lo spazio e che fa parte della narrativa del mio lavoro. Lì subentra l’attesa per trovare la dimensione giusta del racconto stesso”. Parla tanto - ma con la precisione e la pacatezza che lo contraddistinguono da sempre – Gianfranco Rosi, super star oggi al Lido di Venezia dove è in corso la 77esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. È il giorno di Notturno, il suo nuovo documentario che esce nelle sale italiane il 9 settembre per 01Distribution. Per realizzarlo, Rosi - nato ad Asmara 56 anni fa, ma da sempre in Italia - ha passato tre anni con una troupe sui confini tra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano riuscendo a documentare la vita e il dolore di tanta gente comune, soprattutto donne e bambini.

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Raqqa, traghettatori di fortuna per attraversare il fiume

C’è una scena emblematica nel film girata proprio in una sorta di “stanza degli orrori” in cui bambini vittime della guerra e delle sue violenze raccontano quanto accaduto attraverso i disegni. “Ho trascorso un mese e mezzo con loro e poi ho deciso di filmarli”, ci racconta il regista, già vincitore del Leone d’Oro qui a Venezia con Sacro Gra e dell’Orso d’Oro a Berlino con Fuocoammare, film con cui poi ha concorso anche agli Oscar. “Non filmarne il volto sarebbe stato ipocrita”, aggiunge. “Dovevo farlo per poter raccontare quelle paure: è stato un atto necessario. La cosa più difficile - spiega - è stata trovare la distanza giusta dal racconto per rendere quella che è poi diventata una scena di arrivo nel film come lo è stata in Fuocoammare quella con i cadaveri ammassati barconi. Ho dovuto rispettare un grande rigore per capire come arrivarci”. I disegni di quei bimbi sono l’unica testimonianza di quell’orrore e la stanza dell’orrore è una stanza di processo alla Storia, “una sorta di Norimberga fatta dai bambini”, dice lui. “La loro memoria ci mette a confronto con l’orrore che è stato l’Isis in questi anni. Le loro non sono interviste, ma dichiarazioni libere che portano solo tanto dolore”. Durante i tre anni di viaggio in Medio Oriente – “un tempo lunghissimo che ti cambia” - il regista ha incontrato le persone che vivono nelle zone di guerra e ne ha voluto raccontare le storie e i personaggi andando oltre il conflitto. Per farlo, è rimasto lontano dalla linea del fronte, andando lì dove le persone tentano di ricucire le loro esistenze. Nei luoghi in cui ha filmato e raccontato la quotidianità di chi vive lungo il confine che separa la vita dall’inferno, arriva l’eco della guerra, se ne sente la presenza opprimente e quel peso tanto gravoso da impedire di proiettarsi nel futuro. Raccontare un film del genere “è praticamente impossibile” - ci fa notare lui, jeans scuri come gli occhiali da sole - “perché è senza storia”. “L’unica è guardarlo come un documentario: solo così se ne può comprendere la forza”.

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Non è stato facile il suo ritorno in patria: “Sono tornato in Italia il 28 febbraio scorso quando c’era il lockdown. In quei tre mesi ho capito questo futuro sospeso che pensavo fosse solo un’apparenza, ma come si sa lo continuiamo a vivere ancora oggi. Siamo in una sospensione totale. Ho rivisto il film dopo quel periodo e ho capito che le sensazioni maturate fanno parte anche di questo film che devo ancora elaborare, devo ancora capire. Forse lo farò dopo questo festival”. O magari, aggiungiamo noi, dopo tutti gli altri a cui è stato invitato: da quello di Toronto – dove è nella Selezione Ufficiale – a quello di Telluride, Londra e Tokyo.

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Murtadah, cacciatore di frodo verso le paludi sul confine tra Sud Iraq e Iran

Nel film – che per lui “è uno stato d’animo, un nome come tanti, un nome comune” - la guerra non appare direttamente, ma lo spettatore ne avverte la presenza nei canti luttuosi delle madri, nei balbettii di bambini feriti per sempre, nella messinscena dell’insensatezza della politica recitata dai pazienti di un istituto psichiatrico. C’è un cantore di strada che va ad intonare le lodi dell’Altissimo, un bracconiere fra i canneti e i pozzi di petrolio e le guerrigliere peshmerga. Ci sono i terroristi dello Stato Islamico in carcere, c’è l’angoscia di una madre yazida per la figlia prigioniera (che dice di aver sentito a telefono il giorno prima) e poi c’è Alì, un adolescente che fatica per portare il pane ai suoi fratelli. “Ho voluto raccontare qualcosa di più intimo per far emergere al massimo la forza dei personaggi, la loro forza emotiva”, aggiunge Rosi. “Mi resta il senso di sospensione del futuro. Nel primo piano di quel bambino e nella domanda su che che futuro avrà, si legge un futuro sospeso che è poi quello che stiamo vivendo in questo momento”. I segni della violenza e della distruzione sono ovunque, ma resta in primo piano l’umanità che si ridesta ogni giorno da un notturno che pare infinito. Rosi firma, oltre alla regia, la fotografia e il suono, mentre il montaggio è di Jacopo Quadri con la collaborazione di Fabrizio Federico. Quel che ne è venuto fuori è un capolavoro di sentimenti che conquista grazie alla sua narrativa a sorpresa. “Mettere l’occhio in una macchina da presa - ci confida prima di salutarci - è il momento per me più drammatico. Subito dopo, però, non so cosa andrò a guardare e a filmare e tutto, nel bene e nel male, diventa a suo modo meraviglioso”.

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