Al centro della sala troviamo la foto di un bozzolo funerario di foglie di palma e stecche realizzata con pellicola a infrarossi: nella tradizione yanomami, antico popolo della foresta pluviale amazzonica, quando muore una persona non deve restare nulla del suo essere stato su questo pianeta, altrimenti lo spirito non si placa. Eppure, grazie a un complesso e costruttivo dialogo sull’importanza di tramandare le tradizioni, la storia di queste persone è davanti ai nostri occhi. La ragione: nel pianeta degli Yanomami è entrata a far parte, per quasi 50 anni, Claudia Andujar artista oggi 89enne, a cui la Fondation Cartier pour l’art contemporain dedica una monografica potente e attuale sancendo il parternariato di otto anni con la Triennale di Milano.

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Courtesy / Claudia Andujar

Attualmente la fotografa risiede a San Paolo, con le restrizioni imposte dalla pandemia lontana migliaia di chilometri, qui a Milano è il direttore generale della Fondation Cartier, Hervé Chandès, a svelarci il colossale lavoro di fiducia e cura dei materiali che animano questa mostra Claudia Andujar, la lotta Yanomami (dal 17 ottobre al 7 febbraio 2021 e precedentemente esposta a Parigi): “ quello tra noi e Claudia è un rapporto che dura da quasi vent'anni, perché non volevamo una mostra fotografica, per rispetto del suo lavoro, della popolazione yanomami e della foresta: quello che vedrete non è il passato, è il presente, è il futuro”. E nel raccontarci le origini di questo percorso Chandès ricorda quel 2003 quando Claudia, a Parigi, ha voluto al suo fianco Davi Kopenawa, portavoce degli Yanomami per supportare più che un'arte una scelta di vita. Già la biografia di Claudia Andujar è un ponte tra comunità ed epoche: nata in Svizzera nel 1931 da una famiglia ebraica e protestante, cresciuta in Transilvania e stabilitasi in Brasile dal 1955, il suo attivismo è nel dna, la foresta pluviale, dal 1971, il suo tempio. “Quel piccolo mondo nell’immensità della foresta pluviale amazzonica era il mio posto e sempre lo sarebbe stato. Sono connessa agli Indiani, alla terra, alla lotta per i diritti fondamentali”: con questa parole lo spettatore è accolto all’ingresso della mostra.

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Courtesy Claudia Andujar / Fondation Cartier

La foresta è il tempio che si snoda anche nelle sale della Triennale - le grandi finestre per molto tempo chiuse illuminano queste opere senza precedenti - in quello che è un percorso che ha necessitato quattro anni di curatela di Thyago Nogueira per dare nomi e storie dei protagonisti ritratti nelle fotografie realizzate dalla Andujar prima per riviste come Realidad, poi sempre più per un’urgenza politica e sociale di tutelare e conoscere una cultura così ancestrale. Dai primi scatti che l’autrice realizzava applicando vaselina sull’obiettivo, per ottenere un effetto onirico, alle ipnotiche tracce dei rituali fino alle ore di ozio sulle amache tradizionali “ogni casa collettiva o gruppo di case multifamiliari costituisce un’antica economica e politica, e i suoi membri di solito si sposano all’interno di quella comunità, in un fitta rete accogliente di parentela e affinità” riporta la didascalia della famiglia Korihana thëri.

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Courtesy Claudia Andujar / Fondation Cartier

Nel momento in cui, a fine anni 70, Claudia Andujar si può dire conosca e abbia conquistato la fiducia e il rispetto della popolazione yanomami, smette di realizzare reportage e inizia il suo percorso politico in difesa del popolo amerindo. Un momento tortuoso che passa dalla campagna per la vaccinazione (stupiscono gli scatti di donne, uomini, bambini con un numero appeso al collo, rudimentale forma di creare per ognuno di loro una cartella sanitaria) a quando iniziano i lavori della Transamazonica, interruzione di cemento del paradiso pluviale e portatrice di degrado e scossoni sociali all’interno della comunità. Non a caso nel 1977 Claudia viene espulsa dal governo per le denunce di quello che cercatori d’oro e sfruttatori del territorio compiono tra gli Yanomami.

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Courtesy Claudia Andujar / Fondation Cartier

Inchiodano i ritratti quasi di posa di alcuni membri della comunità: dai dettagli di una madre che abbraccia il figlio adolescente ai primi volti schiavi delle dipendenze (in primis alcool), così come è ricco il dialogo con gli Yanomami a cui Claudia chiede di disegnare, rappresentare i loro rituali, “sono sempre connessa agli Indiani, alla terra, alla lotta ai diritti fondamentali. Tutto questo mi commuove profondamente. Ogni atomo è essenziale. Forse ho sempre cercato la risposta al significato della vita in quella essenzialità. E fui condotta lì, nella giungla amazzonica, proprio per questo motivo. È stato uno stimolo alla ricerca di me stessa”. Perché tutto questo è il futuro come ci anticipava il direttore generale di Fondation Cartier? Ancora una volta la risposta è in uno scatto degli anni 80 di Claudia "anche se una società, come quella degli Indiani, è destinata a essere assorbita dal mondo tecnologico, ogni individuo in quella cultura ha il diritto all'autosviluppo per ottenere il livello morale e intellettuale che gli permetta di scegliere i valori che desidera raggiungere".

sao paulo, bresil    24 juillet 2019 la célèbre photographe brésilienne claudia andujar pose pour un portrait dans son appartement de são paulo andujar a consacré des décennies de sa vie à la documentation photographique des peuples autochtones brésiliens, en particulier du groupe ethnique yanomami elle aura une exposition individuelle à la fondation cartier à paris en décembre 2019 photo victor moriayama pour le mondepinterest
Courtesy Cartier p.o.
L’autrice di questa mostra Claudia Andujar