«Mica come quello là, che è cattivo, ci piacciono le bambine e io lo voglio picchiare, picchiare, picchiare». Negli ultimi mesi, la demenza senile di mia madre conosce evoluzioni divertenti. Prima ha cominciato con la tovaglia in plastica nel tinello. Poi con il bastone. È seguita una pentola, una sola, sempre la stessa. Infine, è arrivata una federa del lettino singolo: perché da quando è morto mio padre e mi sono trasferito da lei, ha voluto che ci dormissi io, nel letto matrimoniale. Insomma, in alcuni oggetti di casa trova una fonte di letture che declama ad alta voce: con l’indice che le trema segue il profilo dei petali stampati sulla plastica, le venature del legno, le pieghe del cotone. E ne ricava ogni giorno nuove storie. Ogni tanto ce n’è qualcuna che ritorna, ma a tutti piace leggere e rileggere il proprio scolapasta, no? La pentola, invece, si è trasformata nella sua playlist. L’accarezza come un antico vaso fatato che produce melodie che solo lei sente e canta a squarciagola. Canzoni sconosciute anche a me, che ormai ho 55 anni: Nilla Pizzi, Natalino Otto, Fred Buscaglione, il Quartetto Cetra. E sì, anche Faccetta Nera. Quando sono in ufficio, fortunatamente da solo, le ripesco da YouTube, così la chiamo in vivavoce per cantarle con lei.

E ride, ride.

Allora la ritrovo, quella donna che non aveva perso la sua propensione alla lotta, scappata di casa a 18 anni con grande scandalo dei parenti perché oltretutto, immediatamente dopo, l’avevano assunta come contabile in un’azienda a 200 chilometri da casa. Un lavoro cui non avrebbe mai rinunciato, neanche dopo il matrimonio con uomo tanto bello quanto infedele, neanche dopo aver messo al mondo tre figli maschi tenuti a bada col carattere di chi è cresciuto sapendo che niente gli verrà regalato, ma tutto dev’essere conquistato con l’impegno, la testardaggine, la capacità di imporsi sui propri difetti. Quella capacità con cui ha cercato di combattere anche la manifestazione dei primi sintomi: dimenticare dove aveva messo le cose, scordarne per un po’ il nome e poi riacchiapparlo per metterlo al posto giusto nella casella della memoria,

arrabbiarsi per motivi che capiva solo lei.

Pian piano, negli ultimi anni – ora ne ha 85 – è come se il passato si sia reimpossessato di lei, l’abbia riarruolata nelle fila dei primi anni dell’infanzia: nei giorni peggiori, quelli in cui non mi riconosce e mi chiede chi sono, è capace di sciorinarmi l’elenco in ordine alfabetico dei suoi compagni d’asilo, si mette il cappotto e la dentiera alle tre di notte perché ha paura di aver fatto tardi e la maestra poi si arrabbierà, maltratta le badanti perché le hanno rubato una mela o una fetta di pane. La sua merenda. Allora devo alzarmi, sbucciarle un frutto e consolarla per il furto subìto: e lei ringrazia questo signore anziano, cioè suo figlio, di essere stato così gentile con lei. Mica come quello là, che è cattivo e ci piacciono le bambine e io lo voglio picchiare, picchiare, picchiare. «Col bastone?», chiedo un po’ divertito, un po’ inquieto. «No, col fucile», s’ingrugna lei. «Ma non danno il fucile ai bambini, rischierebbero di fare male alle persone», la rincalzo io. Lei mi guarda. E mastica.

«Guarda che le è andata bene, per come stava messa all’inizio», ripeteva al telefono Anna. Con mia madre Lucia sono le uniche superstiti della famiglia d’origine. Sua coetanea, Anna è una cugina alla lontana, però le è sempre stata vicina. Vive in Sicilia, ha sposato uno di Palermo, è vedova pure lei. Si fa sentire per i compleanni e tutte le feste comandate.

Ma quando telefona, mia madre non vuole sentirla. Anche quando stava bene, la liquidava con una certa freddezza. Non ha mai ricambiato una chiamata, tanto che noi figli le rimproveravamo quest’inspiegabile ostilità: «Ma non vi vedete da cinquant’anni, lei ti telefona, perché ogni volta devi trattarla così?». Mia madre borbottava.

«Mica come quello là, che è cattivo e ci piacciono le bambine e io lo voglio picchiare, picchiare, picchiare».

Da piccole erano inseparabili. Questo ci sembrava un ulteriore enigma. Era stata Anna ad accompagnarla in quello che noi adolescenti, quando nostra madre tentava di raccontarci il suo passato, avevamo ribattezzato, sghignazzando, “il viaggio della speranza”. Cagionevolissima di salute, si temeva che potesse prendere la tubercolosi: così mia nonna da Bolzano l’aveva spedita a sei anni a vivere a Sanremo, dove viveva sua sorella col marito. Gli zii l’avevano accolta come una figlia vera, anche perché loro non ne avevano avuti: non le era mancato nulla, lezioni di pianoforte, vacanze in colonia, un’istruzione che l’aveva portata a quel diploma che poi le sarebbe servito a trovare il lavoro. Era cresciuta esile e cocciuta per fuggire ancor prima di essere maggiorenne, andando a vivere proprio dalla famiglia di Anna. Ma, altro mistero, appena scoccati i ventun anni, si era trasferita in una casa con due colleghe dell’ufficio più grandi. Non avrebbe mai più rivisto i genitori adottivi. E nemmeno Anna. Vedeva pochissimo anche il suo papà e la sua mamma biologici. Si era un po’ riavvicinata a loro solo dopo la nostra nascita. Ai figli venne fermamente vietato di chiederle perché fosse andata via così da due persone che l’avevano cresciuta tanto amorevolmente.

Zitti. Non chiedete, che ve n’importa? Avete la vostra vita.

E così è stato. Quando gli zii se ne andarono, a pochi anni di distanza l’uno dall’altra, Anna lo disse a noi. Noi lo dicemmo a nostra madre. Neanche una lacrima. Neanche un sospiro. Lo sguardo fisso sulle piastrelle in cucina. Tutto strano. Troppo strano. Non c’era mai stata in casa una loro foto. Le aveva bruciate tutte. La giudicavamo un’irriconoscente.

«Mica come quello là, che è cattivo e ci piacciono le bambine e io lo voglio picchiare, picchiare, picchiare».

Prima della malattia, l’ho vista trasformarsi in nonna tenerissima, specie dopo la morte di papà. Era sempre pronta alla discussione che superava con una torta, una camicia - sapeva cucire molto bene -, un vasetto di marmellata fatta da lei. I suoi calumet della pace.

Sulla sua tovaglia, sul bastone, sulla federa, di mille ricordi che risorgono non c’è mai Anna o gli zii. Talvolta ho pensato che le sue non fossero memorie, ma invenzioni create da giocose e impazzite sinapsi che prima di spegnersi, sprigionano un’ultima scintilla.

Però è tornata la storia di una ragazzina terrorizzata da un uomo anziano. Una volta. Due. Tre. Dieci. Nei fiori della tovaglia di plastica, nelle striature del legno, addirittura in una voce dalla pentola. Perché questo continuo tornare a un racconto preciso, ora che in lei la vita profonda scorre con l’impetuosità che sperimentano i neonati, il cui mondo interiore di giorno in giorno lascia emergere terre nuove e subisce violenti contraccolpi?

«Mica come quello là, che è cattivo e ci piacciono le bambine e io lo voglio picchiare, picchiare, picchiare». I sospetti arrivano così, quando meno te l’aspetti: ma vedere il male e riconoscerlo non è un’impresa facile. È come immergere una mano in una vasca di squali quando pensi che dentro vi siano pesci rossi: non ci credi. Eppure, la tua mano sanguinante te lo sta testimoniando. Ho telefonato ad Anna un giorno qualunque, ma quel giorno avrebbe cambiato la mia vita. Le ho raccontato del vecchio e del bastone, del vecchio e della tovaglia, del vecchio e della pentola. «Come hai fatto a saperlo? Te lo ha detto lei?». No. Però sì. Tutto ha cominciato a quadrare, a sprofondare in una cornice di melma.

Anna sapeva che mia madre era stata abusata e molestata dallo zio per molti anni.

Cinque, chi lo sa, forse dieci. E non aveva fatto niente. Anzi, le aveva proibito di farne parola con tutti, compresi i suoi genitori biologici: in cambio l’avrebbe ospitata appena fosse stata in grado di andarsene. Ma per gratitudine, doveva sopportare. «Cerca di capire, erano altri tempi. C’era un’altra cultura. E poi, del resto, suo zio mica era un parente, era solo il marito della sorella». Non so se il conato di vomito represso a fatica sia derivato più da Anna che tentava di giustificare lo zio perché aveva sventato il pericolo di un incesto, o perché avevo avuto la prova che la malvagità di quello là era un fatto e non uno scherzo di un cervello in caduta verticale. Ora sapevo che la manifestazione della ferocia umana le si era così impressa a fuoco - un timbro incandescente – che tornava a farle malissimo. Una cicatrice che si riapre. E sotto, un verminaio di putrescenza emotiva.

Sono tornato a casa. Ho abbracciato mia madre che in quel momento cantava Viva le donne, viva le belle donne che sono le colonne dell’amor. Per fortuna era uno di quei giorni in cui sapeva chi fossi. Mi ha guardato un po’ stupita per quest’abbraccio così poco adeguato tra noi.

M’interrogo spesso sulla persistenza del male. Si può superare? Si può perdonare? Non potrò vendicarla, né risarcirla. Anche perché non saprò mai se lei, mentre la sua mente scivola ogni giorno di più nel buio della coscienza, di quel che è successo non abbia portato tutto il peso, in silenzio, da sola lungo la sua vita. Spero si sia confidata con qualcuno. Era una donna forte. È una donna forte. Di sicuro non se n’è mai fatta una ragione.