La notte del 22 agosto 2014 Laura Russo, detta Lauretta, che stava per compiere 12 anni, è stata assassinata da suo padre. Sua madre Giovanna Zizzo ha raccontato a MarieClaire.it le tappe, irreali, che hanno portato fino all'epilogo di una storia drammatica che nessuno dovrebbe mai vivere.

Per raccontarvi di me, di come mi sia ritrovata a vivere tutto questo, inizierò nel modo più semplice. Mi chiamo Giovanna Zizzo e sono nata nel 1970 a Trecastagni, un comune alle pendici dell'Etna, in una bellissima famiglia con quattro figli, tre maschi e io, unica femmina. Le bambine sognano, sognano di diventare ballerine, di diventare medico, di fare tante cose, ma io sognavo solo di diventare mamma. A qualcuno può sembrare strano, ma io amo tantissimo i bambini, mi sono sempre piaciuti. In attesa di realizzarlo con l'uomo giusto, finite le scuole mi sono data da fare, ho cominciato a lavorare come commessa in un negozio di abbigliamento e scarpe, dove non ho mai preso uno stipendio perché spendevo tutto in acquisti per la mia famiglia, e poi come segretaria nell'attività della famiglia dell'uomo che di lì a poco avrei sposato. Lui si chiama Roberto Russo.

Quando io e Roberto ci siamo conosciuti avevo 13 anni, e lui 16.

Lui mi aveva vista girando per il mio quartiere con il motorino e aveva cercato qualcuno che ci presentasse. Quando c'è riuscito è stato un colpo di fulmine. Non era particolarmente bello e avevo anche altri ragazzi che mi corteggiavano, ma mi conquistò. Ci siamo messi insieme subito. Ecco, sento sempre dire che quando una donna sposa l'uomo sbagliato, un po' se l'è cercata, che doveva capirlo subito che tipo fosse. Tutto falso: niente mi ha mai fatto sospettare quanto fosse pericoloso quell'uomo, soprattutto all'inizio, il mio futuro marito era una persona tranquillissima e per tutto il tempo che siamo stati insieme, fino alla fine, non ha mai alzato una mano. Aveva i suoi scatti d'ira ogni tanto come capita a tutti, a volte qualche ceffone ai figli, cosa di cui discutevamo molto perché io non ero d'accordo con le punizioni corporali. Ma niente di più.

La nostra storia si è messa in pausa quando lui, a diciott'anni, è partito per il servizio militare a Mestre. Credo che lì abbia avuto storie con altre ragazze, ma eravamo troppo giovani per pretendere che non succedesse. Quando è tornato in Sicilia abbiamo ricominciato da capo. Lui si è messo a lavorare nell'attività di famiglia, una di quelle società che un tempo, nelle province, consegnava corredi e batterie di pentole a domicilio. Andai a lavorare nel suo ufficio come segretaria, prendevo gli appuntamenti con i clienti è tenevo la contabilità. Quando abbiamo compiuto io 21 anni e lui 24 abbiamo deciso di sposarci. Eravamo molto giovani, è vero, ma ancora negli anni 90, in Sicilia non potevamo stare mai da soli. Quando uscivamo c'era sempre uno chaperon, in genere uno dei miei fratelli, a controllarci. I suoi genitori ci avrebbero dato una casa, avevamo entrambi un lavoro, non c'era motivo per aspettare ancora.

L'inizio del nostro matrimonio è stato bellissimo. Era il mio primo uomo, il mio primo amore.

Ci sarebbe voluta molta esperienza per capire che l'amore è tutt'altra cosa. Il primo segnale che qualcosa non funzionava è arrivato quando sono rimasta incinta tre mesi dopo le nozze. Mi aspettavo che lui facesse salti di gioia. Invece si è incupito, mi disse che un figlio così presto avrebbe limitato la nostra libertà e le disponibilità economiche. Ma quando è nato Andrea, poi, tutto è andato bene. Per il secondo figlio, voluto di comune accordo, abbiamo dovuto aspettare sei anni. Avevo iniziato una dieta per dimagrire un po' ma il mio metabolismo aveva reagito in modo strano facendomi perdere 14 chili in un mese. Uno squilibrio che mi impediva di rimanere incinta fino a quando non mi sottoposero a una cura ormonale. Nel 1999 è arrivato Emanuele. Ma la cura ormonale aveva funzionato fin troppo bene: dopo nove mesi ero di nuovo incinta. Stavolta mio marito suggeriva di interrompere la gravidanza perché temeva per la mia salute. Io invece mi sentivo che stavolta era una femmina e ho insistito a volerla portare a termine. Ed è nata Marika. Quando dopo due anni sono rimasta incinta per la quarta volta, mi sono ritrovata contro tutta la famiglia. Volevano tutti che abortissi.

La mia infanzia con tre fratelli era stata complicata, e poiché anche stavolta speravo nella femminuccia, volevo che Marika avesse una sorellina, per cui non mi sono arresa ed è nata Lauretta. Dalla sua nascita il rapporto fra me e mio marito, per chi ci guardava da fuori, poteva sembrare perfetto, ma non lo era. Io dedicavo molto tempo ai bambini e non mi pesava: la mattina presto li preparavo e li portavo a scuola, li andavo a riprendere, lavoravo e preparavo il pranzo per tutti. Ero serena, certo, molto impegnata ma non mi sono mai lamentata. Nel frattempo l'azienda di famiglia di mio marito aveva chiuso e lui alternava diversi lavori, ma tiravamo avanti in maniera dignitosa, anche perché d'estate ci trasferivamo nella casa di campagna dei miei genitori dove c'era la piscina e i bambini si divertivano molto. Mio marito intanto si trasformava. Era sempre più apatico, non prendeva mai iniziative, lo dovevo sempre spronare e a volte non lavorava. Pareva vivere in un mondo tutto suo. E poi, succedevano episodi come quella volta in cui ho preparato dei petti di pollo che avevo in frigo, ma non erano sufficienti per tutti, quindi ho fatto prima le porzioni per i bambini pensando che io e lui ci saremmo accontentati di quello che restava, ma lui mi rimproverò "mi tratti come l'ultima ruota del carro".

Mi stavo rendendo conto di aver sposato un immaturo che era in competizione con i figli.

Peggio ancora: si comportava come se fosse uno dei miei figli, invece dell'uomo che avevo sposato, il padre di quattro bambini. Per qualsiasi decisione importante che dovevamo prendere insieme mi liquidava con: "vediamo cosa dice mia madre". Eppure mi sentivo ancora innamorata di lui e non volevo lasciarlo. Ormai ci eravamo scambiati i ruoli tradizionali, io avevo un posto fisso, uscivo la mattina presto per andare al lavoro mentre lui preparava i bambini per portarli a scuola. Ha cominciato a parlare di emigrare tutti all'estero, in Australia, ma i ragazzi non ne volevano sapere e non ero entusiasta nemmeno io. Poi le bambine, un giorno, mi hanno chiamata per mostrarmi qualcosa. Mio marito aveva dimenticato aperto, sul pc, il suo Messenger di Facebook dove si scambiava messaggi inequivocabili con un'altra donna. Eravamo scioccate. Certo, ci eravamo sposati così giovani che prima o poi una cotta per qualcun altro sarebbe accaduta. Però ci eravamo giurati di confessarcelo subito e di parlarne. Chiesi alle bambine di non dire nulla, che si sarebbe sistemato tutto.


Inevitabilmente mi sentivo più lontana da lui e lui mi chiedeva che cosa avessi. Laura, che era una bambina molto saggia, mi disse "mamma non puoi andare avanti così, voglio che torni quella di sempre che mi fa ridere e mi coccola". Mi feci coraggio e lo affrontai. Mi disse che aveva conosciuto l'altra quando i nostri ruoli si erano invertiti, che mentre io ero sempre fuori per lavorare e lui era in casa, si era sentito trascurato da me e molto solo. Obiettai che io portavo i soldi in casa e non meritavo questo. Mi disse che era solo "un'amica del cuore", e gli chiesi di spiegarmi esattamente quanta importanza avesse nella sua vita. Mi rispose con una lista di priorità: "al primo posto ci sei tu, al secondo i tuoi figli, è poi lei". Io di quella classifica notai solo due cose: che non aveva messo i figli al primo posto, come dovrebbero fare i genitori, e che non aveva detto i nostri figli ma i tuoi.

Gli chiesi di non darmi troppi dettagli sulla relazione con questa donna perché altrimenti non sarei mai riuscita a perdonarlo. Era estate, dovevamo andare in campagna dai miei genitori e gli chiesi di poterci andare da sola con i figli. Stando un po' separati forse avremmo avuto le idee più chiare su cosa fare del nostro matrimonio. Non la consideravo una separazione, ma un distacco fisico per guardare tutto a distanza e capire se il nostro rapporto si poteva rammendare. A ogni modo, ci sentivamo al telefono tutti giorni e lui ogni tanto veniva a trovarci. Il 21 agosto del 2014 sono rimasta sola in casa dei miei, erano usciti tutti. Lui mi chiama e mi dice che vuole parlarmi. Mi ha raggiunto e abbiamo parlato per quattro, lunghe ore. Mi spiegò che quando insisteva di vivere in Australia era perché voleva raggiungere lei che è emigrata lì. L'aveva accompagnata lui in aeroporto. Mi confessò di avere una scheda telefonica che usava per parlare solo con lei, e che lei continuava a chiedergli di raggiungerla, che gli avrebbe pagato anche il biglietto aereo.

Mi disse di aver attraversato un momento molto difficile a mia insaputa, quando era indeciso se partire con lei o restare con noi. Avevo ancora fiducia che le cose si sarebbero aggiustate. Ci abbracciamo, ci siamo promessi a vicenda di stare tranquilli, di riflettere. La mattina dopo è venuto a prendere i ragazzi per stare con loro. Poco dopo mi telefonò contento perché era la prima volta che le bambine facevano la spesa con lui invece che con me. "Quante cose mi sono perso dei miei figli", mi disse. La sera mi chiamarono le bambine per dirmi che il padre li stava portando tutti e quattro a mangiare fuori. Non era mai successo, soprattutto col frigo pieno come quel giorno. Fecero una passeggiata, i due maschi se ne andarono con i loro amici e lui porto le bambine a spasso per San Giovanni la Punta. Sul lungomare si sono fatti un selfie, con lui al centro. Marika lo stava postando scrivendoci Una bella serata con la mia famiglia, ma il padre le ha chiesto di cambiare in Una bella serata con il mio papy e la mia sister.

A casa, con un messaggio mi disse che stavano guardato un film tutti e tre insieme nel lettone fino a tardi e che le bambine avrebbero dormito lì con lui. Era tutto molto strano, pensai che volesse godersi finalmente i suoi figli e che stesse recuperando il tempo perduto. A mezzanotte, invece, mi chiama agitato per dirmi che gli si era rotta la macchina e che la mattina dopo non sarebbe venuto a prendermi dai miei genitori come aveva promesso. L'ho tranquillizzato, ho detto che me la sarei cavata da sola, ma lui commentò: "sta andando tutto per il verso sbagliato". Il giorno dopo, mio figlio Emanuele mi racconterà che alle tre di notte lo aveva trovato al pc e che quando gli aveva chiesto cosa stesse facendo lui gli ha risposto: "non ti preoccupare, che domani mattina lo saprai". Quello che fece subito dopo, quando tutti i ragazzi dormivano, è stato cercare due coltellacci da cucina, uno per il pane, l'altro per l'arrosto, che tenevo nascosti perché mi facevano paura, li usavamo solo quando avevamo ospiti. Quando li ha trovati, dalla cucina ha percorso il lungo corridoio che porta alla nostra camera da letto dove dormivano le bambine.

Ha iniziato con Laura, cercando il cuore. Marika che era vicino a lei si è svegliata per l'unico grido soffocato che Laura era riuscita a emettere. Mi ha raccontato di essersi ritrovata bagnata di qualcosa, il sangue di sua sorella, e quando ha alzato gli occhi ha visto il padre accovacciato su di lei che sferrava colpi. Ha urlato al padre di smetterla, lui le ha risposto di stare zitta. Lei ha strattonato la sorellina da un braccio per sottrargliela, l'ha fatta cadere col viso a terra e lui l'ha raggiunta di nuovo per continuare. Poi si è rivolto a lei, ma nel frattempo le urla avevano svegliato i ragazzi. Andrea, il maggiore, ha cercato di disarmare il padre, ha afferrato i coltelli con le mani nude, ferendosi. Marika, ferita, è riuscita a scappare, è corsa a chiamare i miei cognati che abitano nel palazzo mentre mio marito urlava che voleva ammazzare tutti e poi se stesso. Quando sono riusciti finalmente a bloccarlo, i miei figli hanno cercato di soccorrere Laura. Non c'è stato niente da fare, se n'è andata pochi minuti dopo.

Se quel giorno in casa nostra ci fosse stata una pistola, mio marito avrebbe ucciso tutti i miei figli

Non credo che si sarebbe ucciso, come diceva anche nel biglietto che hanno trovato in cucina, è troppo codardo. I miei figli mi assicurano che la ferita superficiale che aveva anche lui sulla pancia se l'è fatta per sbaglio durante la colluttazione con loro, e non cercando di togliersi la vita come afferma. Nel biglietto ha scritto che se stava facendo tutto questo la colpa era mia, perché non ero stata capace di perdonargli il tradimento. Al processo gli avvocati hanno cercato di fargli ottenere l'infermità mentale, lui rispondeva a tutto “non ricordo”. Hanno cercato di farlo passare invano per un ludopatico. Hanno detto che si sentiva perseguitato dalla mavaria, da una maledizione. Dalle perizie a cui è stato sottoposto è risultato in possesso delle sue facoltà ed è stato condannato all'ergastolo in tutti i gradi di giudizio, la sentenza della Cassazione spiega chiaramente la freddezza della premeditazione e la preordinazione del suo atto. Avevo sposato un mostro, uno di quei padri che uccidono i figli a sangue freddo e non me ne sono mai accorta. Non so come quest'uomo riesca a vivere sapendo di aver tolto la vita a sua figlia. Non ha mai chiesto perdono a Marika, che è stata ferita seriamente, né agli altri due figli. Ho anche dovuto subire il biasimo di alcuni concittadini che hanno dato la colpa a me. Era quello che voleva lui con quel biglietto, condannarmi al rimorso eterno.

Mi ha condannata all'ergastolo del dolore.