«Uno dei suoi film preferiti, negli ultimi anni di vita, era Avatar: l’avrà visto non so quante volte». Stupore. Bernardo Bertolucci (in apertura, una foto quasi inedita scattata a Roma nel 1967 da Gideon Bachmann, ed è parte dellArchivio Bertolucci: qui aveva 26 anni), di cui oggi ricorre il secondo anno della morte, poteva amare un filmone hollywoodiano di fantascienza? Proprio lui che, oltre a essere annoverato tra i più grandi autori di sempre, era considerato tra quelli più “impegnati” (parola su cui ci sarebbe molto da discutere, oggi) poteva essere tra i fan di bizzarre creature blu con le squame? «Ma certo! Gli piaceva guardare di tutto. E riguardare, se proprio ne era rimasto affascinato. Del resto, ero la sua pusher di fumetti: li ho ritrovati tutti quando sono entrata nel suo studio per il progetto di un archivio a lui dedicato». Parla Tiziana Lo Porto, scrittrice, giornalista e traduttrice, che ha curato nel 2016 il volume di interviste a Bernardo Bertolucci Cinema la prima volta: Conversazioni sull'arte e la vita (minimum fax) e dal 2019 gestisce, insieme alla vedova del regista Clare Peploe, Fabien Gerard, Giovanni Mastrangelo e alla Cineteca di Bologna, il suo sito. È prevista l’apertura, del Museo Bertolucci a Parma, la città in cui è nato da una famiglia unita dall’amore per la cultura. Sarà al plurale, dedicato ai Bertolucci - Bernardo, il padre Attilio, acclamato poeta e critico del ‘900, e il fratello Giuseppe, regista anche lui - ed è concepito con due grandi spazi: uno destinato alla documentazione con lettere, sceneggiature, note di regia. L’altro, espositivo, avrà una sala permanente e altre dove si svolgeranno mostre temporanee. Lo cureranno Claire Peploe, la Cineteca di Bologna, il Comune di Parma e l’Assessorato alla Cultura. Nel frattempo, molte testimonianze vengono raccolte proprio sul sito, un «cantiere aperto», lo chiama Tiziana. Per ricordarlo, abbiamo fatto quattro chiacchiere proprio con la sua «amica dj», come la definiva lui.

un fotogramma di prima della rivoluzione, il secondo film di bernardo bertolucci allora 23enne siamo nel 1964pinterest
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Un fotogramma di Prima della rivoluzione, il secondo film di Bernardo Bertolucci allora 23enne (siamo nel 1964). Il titolo prende spunto da una frase di Talleyrand che introduce la pellicola: «Chi non ha vissuto negli anni prima della Rivoluzione non può capire che cosa sia la dolcezza del vivere».

Come vi siete conosciuti?
Attraverso un’amica comune, la regista Monica Stambrini. Lei mi ha chiesto, siccome sono una grande appassionata di fumetti, di prestargliene uno a mia scelta. Le prestai Vita da bambina di Phoebe Gloeckner, una delle migliori autrici americane di graphic novel. Il giorno dopo, lei venne da me dicendo che non avrebbe potuto restituirmelo. «Ieri sera ero a cena da Bertolucci, lo ha visto e lo ha voluto, non me la sono sentita di dirgli "no"». Per me, che avevo già Bernardo tra i miei miti personali, fu un onore. Le risposi di considerarlo un dono da parte mia. Lui m’invitò a cena quella sera stessa. È iniziato così.

Perché ti chiamava «la mia amica dj»?
Aveva scoperto che, tra i miei numerosi lavori, c'era anche quello di dj. Così, per la fine delle riprese di Io e te, nel 2012, dalla troupe dissero che voleva organizzare una festa danzante - lui amava i “tè danzanti”- per festeggiare la conclusione del film. Ma a un patto: che la dj fossi io. Naturalmente, l’ho accontentato. Da allora, è stato il mio soprannome. Quando lo accompagnavo, mi presentava in quel modo: «Del resto, sei l’unica amica dj che conosco», bisbigliava ridendo. E ho sempre messo i dischi alle sue feste di compleanno.

Quali scoperte hai fatto, andando nella sua casa, che del resto conoscevi bene? Ne abbiamo fatte tante, io e Claire. Per esempio, una meravigliosa lettera di scuse che Attilio scrisse ai suoi figli, mentre Bernardo girava La strategia del ragno, nel 1970. Si erano innervositi la sera prima e il papà, in quegli anni, si sentiva molto incompreso, “fuori dal mucchio”. Poi ce n’è un’altra - molto commovente - in cui Bernardo scrive a Paul Bowles, l’autore di Tè nel deserto da cui ha tratto il film del ’90, per domandargli quali libri la coppia dei protagonisti Kit e Port avrebbero potuto mettere in valigia per il viaggio: sia Bowles, sia Bertolucci ne parlano come di persone vive, non come personaggi. E poi, ci sono i suoi disordinatissimi diari di lavorazione: in uno, ho trovato la bozza di una lettera a Giulietta Masina, quando morì il marito, Federico Fellini. Lì le racconta di come, da piccolo, lo avessero portato a vedere La Dolce Vita e da lì aveva deciso di volere fare cinema. Non so se la scrisse e la spedì mai, ma è di una delicatezza incredibile, esprime grande amore e stima. Tra registi, allora - guai a chiamarsi “colleghi” - c’era un grande rispetto reciproco, anche se i linguaggi visivi erano diversi. Sicuramente, l’ego non era un suo problema. Pensa che, a un certo punto, ho spulciato una rassegna stampa giapponese di giornali che era ancora sigillata perché doveva farla tradurre: dentro, era scivolata la lettera dell’Academy in cui gli veniva annunciato di aver vinto l’Oscar come miglior regista per L’ultimo imperatore, che si portò a casa altre nove statuette. Era fatto così. Pensava costantemente a una nuova idea, al prossimo film.

Guardavate insieme molti film?
Era inevitabile. Almeno un film al giorno, almeno due-tre puntate di una serie tv. E quelli che gli erano piaciuti li rivedeva anche due, tre dieci volte. Di Avatar amava il 3D, tanto che Io e te avrebbe voluto realizzarlo con quella tecnica. Come me, era appassionato di film di supereroi: sono figure salvifiche, che arrivano e sistemano tutto. Se tu non perdi il pensiero bambino, che lui ha sempre coltivato, speri sempre che arrivi qualcuno a salvarti. Quell'innocenza non lo ha mai abbandonato. Anzi. Forse, lo ha spronato ad affrontare il presente con piglio, con ottimismo: quando girava Io e te in carrozzina, ne aveva voluto una meccanica che, andando su e giù, gli faceva capire come fare le carrellate.

una scena da il tè nel deserto, del 1990, con debra winger e john malkovichpinterest
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Una scena da Il tè nel deserto, del 1990, con Debra Winger e John Malkovich.

Amico di Pasolini come di Marlon Brando, come ha fatto secondo te, ad attraversare il cinema dallo sperimentalismo ai film d’autore, dai low budget alle mega-produzioni, dai documentari alle pellicole di denuncia, rimanendo sé stesso?
Non c’era niente, per Bernardo, di più detestabile della noia. Ripetersi non era da lui. Né ripetersi per gli altri come stile o linguaggio, né nello svolgersi dell’esistere. Non ho mai conosciuto nessun altro in cui vita e arte si siano così sovrapposti. Quando iniziavano le riprese di un film, per lui quella era la vita. Quando un giornalista gli fece notare la presenza in tantissime sue opere di ragazzini o adolescenti, rispondeva: «Così alla fine delle riprese saranno cresciuti una spanna, saranno cambiati. E il film sarà più vero». Ha fatto un solo documentario, bellissimo, che adesso verrà riproiettato in Iran: si chiamava La via del petrolio, gli era stato commissionato dall’Eni. Lui aveva 24 anni. Ma non ne ha mai fatto un altro. Mai rifare la stessa cosa.

Un affresco storico come L’ultimo imperatore; un gioiellino intimista e come L’assedio; un inno al sogno e all’amore come The Dreamers; l’incomunicabilità dell’amore che non si trasmette neppure col sesso disperato di Ultimo Tango a Parigi… Ma perché di Bertolucci, alla fine, l’aggettivo per incasellarlo rimane sempre quello di un regista politico, quello di Novecento e de Il conformista, per capirci?
Non è sempre stato così. Quando è andato ad Hollywood è stato molto criticato dagli intellettuali proprio per il suo allontanamento dalla politica, per aver scelto una via più spettacolare. Certo, Bernardo, non è mai stato in linea con lo scenario del potere italiano, ma in realtà il vero regista politico credo sia stato più suo fratello Giuseppe. Detto questo, nel momento in cui hai la visione di come vorresti andassero le cose e non hai paura di prendere posizione, tutto quello che fai diventa politico, non credi? Anche se fai un film storico o girato in territori lontani. Certo: Novecento è stato un film dichiaratamente politico, criticatissimo. Sul sito c’è un bell'intervento di Ennio Morricone quando abbiamo ricordato Bernardo pochi giorni dopo la sua morte, il 6 dicembre 2018, in una serata al teatro Argentina che si chiamava Au revoir BB. Il compositore dice: «Bernardo metteva tutti i buoni da una parte e i cattivi dall’altra», a proposito delle polemiche sul film.

Ed è giusto fare così?
Secondo me, sì. Se credi in una causa non puoi non avere un atteggiamento che non sia netto, preciso, puntuale. Bernardo ha vissuto continuando a combattere anche per l’Associazione Piccolo America di Roma e del suo Presidente Valerio Carocci, che venne minacciato di morte da esponenti di Casapound e successivamente malmenato e aggredito. Che poi lo ripagò proiettando Ultimo tango a Parigi all’aperto, a Roma, in piazza San Cosimato completamente gremita. Ecco: se qualcuno si tira indietro di fronte a qualcosa che vuoi difendere, non stai facendo un’azione politica, a proposito.

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Maria Schneider e Marlon Brando in un momento intenso di Ultimo Tango a Parigi, del 1972. La pellicola venne sequestrata, assolta, nuovamente sequestrata. Il 29 gennaio 1976 la Cassazione stabilì la condanna alla distruzione del negativo per oscenità e Bertolucci fu privato dei diritti civili per cinque anni. Il 9 febbraio 1987 il film fu infine riabilitato con una sentenza di «non oscenità».

I suoi tre film preferiti?
Il primo è Ultimo Tango a Parigi, ma non per il suo aspetto “scandaloso”, anche perché -malgrado il clamore dell’epoca - non c’erano nudi frontali, non era un film porno ed esplicito: illustrava una situazione di estremo disagio nelle relazioni tra uomo e donna attraverso la sessualità. In qualche modo, è un film profetico che prefigura uno stato della contemporaneità in cui i rapporti umani sono sempre più complicati. E c’è una Maria Schneider insuperabile che tiene testa a un Marlon Brando in stato di grazia che, fuori dal set, in realtà la proteggeva, la coccolava, la sosteneva. Il secondo è Io ballo da sola, anche per ragioni anagrafiche. Quando uscì, avevo la stessa età di Liv Tyler. L’identificazione fu totale: mi sembrava un film che parlava di me, una ragazza di sedici anni. E poi perché lessi un’intervista in cui Bernardo diceva di “reincarnarsi” in ogni personaggio protagonista e, in quel caso, aveva scelto di ritrovarsi nel corpo e nei turbamenti di una post-adolescente. Il terzo è Prima della rivoluzione perché è di bellezza assoluta nella fotografia e restituisce al pubblico la Parma vista attraverso i suoi occhi di genio ventitreenne. «Nel primo film ho voluto strappare Roma a Pasolini e Parma a mio padre», dichiarò successivamente.

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Un primo piano di Liv Tyler in Io ballo da sola, girato in Toscana nel 1996.

Cos’hai imparato da lui?
Non credo di aver imparato qualcosa. È come se avessi interiorizzato Bernardo. Succede, quando riconosci l’altro. Guardo il mondo con i suoi occhi: ogni volta che vedo un film, mi chiedo come l’avrebbe giudicato. E ci univa la curiosità. Lui apprezzava Yorgos Lanthimos, Pablo Larraín, Matteo Garrone, Paolo Sorrentino: correva a vedere i loro film con grandi aspettative, senza nessun pregiudizio o senso di competizione.

E lui cosa pensi abbia imparato da te?
Credo che non solo non abbia imparato nulla, ma ancora mi chiedo come mai abbia scelto proprio me come sua alleata. «Perché gli sto così simpatica?», è una domanda che mi sono sempre fatta. Poi ho capito che forse era più bello non saperlo. È più interessante non indagare sul perché una persona ti include tra le sue amicizie.

Non sarai troppo modesta?
Quando ho scritto la postfazione al libro, qualcuno mi ha riferito di avergli detto: «Ma il testo è bellissimo! Avrebbe dovuto essere la prefazione». E lui ha risposto: «Tiziana è così».