La caratteristica straordinaria di Jia Tolentino ti sorprende nelle parole del suo libro d’esordio. L’ho colta mentre lo leggevo e poi quando l’ho tradotto in italiano. Oggi ho la stessa sensazione durante la nostra chiacchierata via Zoom - lei a Brooklyn, io a Manhattan - separate da non più di sette fermate di metropolitana: in tempi normali ci saremmo incontrate per un caffè. La sua caratteristica più impressionante, dicevo, è quella di non perdere mai di vista la prospettiva dell’altro. Tu le fai una domanda con la tua limitata visione del mondo e quando dici “noi” intendi quelli come te, ma lei ti porta subito ad allargare quella visione. Durante la nostra conversazione succede almeno due volte, quando le chiedo un’opinione generica su come usciremo da questo anno strambo e difficile, segnati dalla pandemia, incattiviti dalla politica, divisi su tutto. Entrambe le volte lei riporta la mia attenzione a un concetto semplice ma troppo spesso dimenticato: non tutte le esperienze sono uguali. Negarlo non ci rende più uniti, ci rende ciechi. «Come ho vissuto questi mesi è molto diverso da come li hanno vissuti tanti altri. È la versione di una persona molto fortunata nella sfortuna. Tutto quello che ho fatto alla fine è stato prendermi cura di me stessa, mantenermi in contatto con gli amici, godermi la famiglia. E questo perché non ho avuto problemi a soddisfare i bisogni di base. Sono consapevole di quante persone non siano neanche sopravvissute. Di quante non abbiano potuto lavorare, abbiano avuto problemi a trovare cibo a sufficienza da mangiare regolarmente, abbiano avuto un parente morto. Vivendo una gravidanza proprio ora ho pensato a cosa significhi dare, come sia l’unica cosa importante: darsi l’un l’altro, dare alle persone una specie di posto morbido dove atterrare con i pensieri di notte.

«Penso, guardando la mia neonata, a quanto siamo indifesi e non credo ci sia altro modo per uscirne se non prendendoci cura l’uno dell’altro. Non siamo destinati a vivere chiusi nella sfera domestica. Credo che sia una delle ragioni per cui New York è stata così diligente nell’indossare le mascherine, perché qui vedi ancora molte persone per la strada e questo fatto ti ricorda che la tua esistenza non si limita dentro una stanza ermeticamente sigillata. La pandemia ha reso più difficile il tipo di connessione normale con le altre persone, abbracciarle, parlare con gli estranei, essere liberi di stare l’uno con l’altro, e in questo momento c’è un vero appetito di interazioni. Dall’altra parte è stata un promemoria dell’interdipendenza: nessuna delle nostre decisioni viene presa in isolamento e se ordiniamo del cibo, per esempio, non possiamo dimenticarci della catena di persone che fa sì che quel cibo arrivi alla nostra porta».

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Katrin Korfmann

La piccola di cui parla si chiama Paloma Daley Tolentino ed è nata il 7 agosto («La bacio molto e poi mi chiedo: e se lei non vuole? Il consenso con i neonati non funziona»). Sul profilo Instagram di Jia ci sono già molte foto e se avete letto il suo libro e le critiche lucide che fa al mondo social la cosa forse vi stupirà. «Quando è nata ho iniziato a usare le storie di Instagram pensando che dopo 24 ore sarebbero state eliminate. Poi ne ho messe anche sul feed, ma in generale credo che le storie siano un buon compromesso: ci sono, ma poi non ci sono più. Il mio rapporto con Internet è cambiato molto durante la pandemia: sono sempre stata dell’idea di poterlo usare quanto volevo, a patto che la mia vita fisica, reale, fosse molto più grande e più importante di quella davanti allo schermo. Ma siccome ora la vita davanti allo schermo ha preso il sopravvento, questo equilibrio è saltato. Quando passo tempo sui social poi ho bisogno della vita reale per ritrovare equilibrio».

Trick Mirror, il suo libro, composto da nove saggi inediti ciascuno su un argomento specifico della nostra società - dai social ai reality show, alla mania dei corpi performanti, passando per il femminismo, il MeToo e il folle mercato dei matrimoni -, è uscito negli Usa nell’agosto del 2019, ed è andato molto bene grazie al passaparola. Quando Barack Obama l’ha inserito nell’annuale lista dei libri che lui consiglia, l’esplosione è stata inevitabile. «È in quel momento che ho iniziato il ritiro dai social. Improvvisamente il mio profilo ha acquisito rilevanza e non mi è piaciuto, mi sono spaventata. La prima cosa che impari quando inizi a scrivere è che i libri vendono poco, che la gente non legge più. Non ho mai dato nulla per scontato. E non mi sento in diritto di avere un pubblico. È stata una sorpresa». Eppure, a poco più di trent’anni e con paragoni che fanno tremare i polsi - uno su tutti: Joan Didion -, la sua è una delle voci più importanti per capire la contemporaneità. «La generosità degli estranei è stata davvero incredibile. Il problema è che gran parte del libro parla di automercificazione e di come questa sia una sorta di autodistruzione, ma siccome è diventato un successo anche io alla fine mi sono messa in vendita ancora di più. E questo, a essere sincera, è stato per me l’aspetto più difficile da comprendere».

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Elena Mudd
Jia Tolentino

A oggi non c’è in programma di scrivere un secondo libro. Jia dice che non vuole essere prevedibile e forse sente il bisogno di deviare un po’ dai temi che ci si aspetterebbe da lei, anche se ammette che scrivere di Internet le piace perché «è il centro attorno al quale ruotano molti altri argomenti». Al momento preferisce trascorrere il tempo con Paloma e lasciare «che il mio cervello cada a pezzi e si riformi, per vedere poi cosa succede». Parliamo dei mesi appena trascorsi, un giro sulle montagne russe. Pandemia a parte, qui negli Stati Uniti ci sono state le marce per la morte di George Floyd e una mobilitazione civile come non si vedeva da cinquant’anni.

E poi la morte di Ruth Bader Ginsburg e la nomina al suo posto alla Corte Suprema di una giudice conservatrice che quasi certamente cercherà di eliminare Roe vs Wade, la sentenza del 1973 che rende l’aborto legale in tutti gli Stati Uniti. «Quando è morta ho pianto, anche se la sua trasformazione in una graziosa bambola di carta non mi è mai piaciuta. Le mie erano lacrime di paura e di frustrazione per l’assurdità di un sistema che aveva posto sulle sue spalle i diritti delle donne in tema di sanità e di aborto. Ma per il resto, non so, questa idea della vecchietta cazzuta che fa le flessioni e indossa bei colletti mi fa chiedere: ci basta davvero solo questo? Preferiamo la sua idealizzazione alle vere conquiste del suo lavoro? Non mi piace mai il simbolismo, non capisco la necessità di trasformare in simboli esseri umani che sono già interessanti di loro. Voglio dire, che bisogno c’è di trasformare una donna gigantesca come Ruth Bader Ginsburg in una nonnetta super cool? Non basta già tutto quello che ha fatto in vita? Ho sempre resistito a questo obbligo implicito nella cultura e nel femminismo di considerare le donne come icone. Non lo trovo utile. Non trovo interessante il concetto di donna ideale. Ma forse qualcosa sta cambiando: ora si guarda sempre più a donne che lavorano davvero e che sono leader per la loro professione e non per ciò che rappresentano. Dalle dirigenti d’azienda alle infermiere: mettiamole su un piedistallo per quello che fanno, non perché sono figurine del tipo di femminismo che ci piace raccontare».

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Katrin Korfmann
Vrindavan (41 min) Katrin Korfmann, autrice di queste immagini, è nata e cresciuta a Berlino ma vive ad Amsterdam dal 1995. Il suo interesse è rivolto alla presenza umana nello spazio pubblico, che diventa quasi una base astratta su cui si muovono, o restano fermi, i corpi. lavorando nella zona di intersezione tra fotografia, filmato e installazione, comunica una visione storica e sociale, personale e collettiva (katrinkorfmann.com).

Da sempre critica verso il capitalismo, non sa dire se è ottimista o meno verso il futuro. «Da Millennial post recessione mi sento fortunata ad avere un lavoro perché alla fine è la cosa più importante. Con il peggioramento dell’economia, le persone avranno sempre meno scelta, soprattutto i giovani saranno costretti ad accettare condizioni svantaggiose. La precarietà aumenterà, i datori di lavoro avranno sempre più spazio di manovra». Eppure qualcosa, almeno a livello di coscienza sociale, sta cambiando. Le proteste contro il razzismo e le conversazioni che sono seguite le hanno fatto pensare che siamo sulla strada giusta. Quando, durante le manifestazioni, ha visto gli organizzatori distribuire mascherine e disinfettante per le mani, ha avuto conferma di quello che è il suo manifesto: occupiamoci gli uni degli altri. «Ho sempre pensato toccasse allo Stato, ma quella scena ha messo in discussione il mio credo. Forse dobbiamo smetterla di fare affidamento su questa convinzione assoluta che un governo socialista sia la soluzione definitiva. Bisogna iniziare a fare più affidamento su noi stessi: cosa possiamo fare per le persone che ci stanno intorno? Dobbiamo essere noi la persona che distribuisce il disinfettante anche agli altri».