“Quando uno non conosce le regole del gioco, non vede l’ordine delle cose. È come non conoscere l’ordine delle stelle: chi non lo conosce, vedrà sempre una grande confusione. L’astronomo invece no, perché ne ha sempre una visione molto chiara”.

È proprio citando una sua dichiarazione riportata nel documentario Alighiero e Boetti. Sciamano e Showman con cui Sky Arte e Tiwi gli rendono omaggio trasmettendolo questa sera in prima serata in occasione dell’ottantesimo anniversario dalla nascita, che lo si può definire al meglio. Alighiero Boetti (Torino 1940-Roma 1994) vedeva benissimo l’ordine delle cose, perché conosceva quelle regole e da perfetto astronomo quale è riuscito a mostrarci le stelle - le sue opere - in tutta la loro luminosità. Esponente dell’Arte Povera e dell’Arte Concettuale, amava la bellezza nelle sue molteplici forme e la stessa era per lui il senso della vita di cui goderne il più possibile, la capacità di esprimere un pensiero che si può esprimere in tanti modi. “Boetti ci ha insegnato a guardare le meraviglie del mondo nel quotidiano, tutte quelle bellezze che abbiamo sotto gli occhi e questo è infinito”, spiega nel film sua figlia Agata senza mai chiamarlo papà come fa anche suo fratello Matteo, entrambi responsabili dell’Archivio che porta il suo nome.

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Courtesy Sky Arte

“Si può usare tutto per fare l’arte”, sosteneva Alighiero Boetti che aveva una vaga somiglianza con François Truffaut, come noterete nel del bel documentario diretto da Amedeo Perri e Luca Pivetti lanciato oggi in anteprima assoluta in Museovisione sui siti internet di sei tra i più importanti musei d’arte contemporanea italiani, dal Castello di Rivoli al Centro Pecci di Prato, dal GAMeC di Bergamo al Madre di Napoli, dal MAMbo di Bologna al MAXXI di Roma. “I miei – diceva - sono lavori che tutti potrebbero fare, ma che stranamente nessuno fa” e in effetti, a guardarli bene, è stato proprio così. Ecco, quindi, i suoi legnetti colorati messi insieme in fascette ben ordinate; ecco “il manifesto con gli amici e le ceramiche che andava a prendere con una 500 scassata a Vallauris per poi rivenderle a Torino; ecco l’arte povera sostituita poi da righe e dai quadretti, da quell’infinita voglia di “quadrare tutto”, tra telegrammi e lettere spedite ad indirizzi inesistenti che tornavano a lui che era il mittente, un “dossier postale” fatto “per far viaggiare chi non poteva farlo, perché morto (Duchamp) o perché ancora troppo giovane per poterlo fare da sola (sua figlia). Ecco “l’opera che non esiste”, ecco le copertine di riviste e la sua edicola concettuale sospesa, ecco la musica, onnipresente e amatissima, dal suo gruppo fondato e durato il tempo di un disegno alla batteria cosmopolita suonata per tutta la vita, “qualcosa di mistico con cui andava lontano”.

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Courtesy Sky Arte

Per uno come lui che era “la libertà totale e la curiosità allo stato puro” - come lo definisce Agata - “una costellazione di punti luminosi” (Stefano Bartezzaghi), “un maestro della forma” (Stefano Arienti) , “uno sciamano e showman” (Angela Vettese), raddoppiare dimezzando era assolutamente possibile così come usare una penna a sfera per fare (e far fare) pittura nel segno della molteplicità (“sono il più grande cliente del signor Bic”, diceva), fino a creare un cielo stellato tutto blu dove ogni tanto compaiono delle virgole bianche. Scriveva frasi con la sinistra e per lui era come disegnare, un modo per “giocare e far giocare gli altri”. Nel 1972 decide di chiamarsi “Alighiero E Boetti”, dove quella vocale indica la congiunzione come una distinzione tra i suoi due sé stesso - i due gemelli - il bene e il male, l’Alighiero che fa casino e il Boetti che fa le opere tenendo ben presente il valore del tempo (“se il concetto è giusto, il tempo lo fa diventare più bello”) e del ritmo, indispensabile nella vita come quello del cuore.

“L’ordine e il disordine” è il suo primo quadretto, il suo yin e il suo yang, il primo di una lunga serie, la dimostrazione perfetta del suo essere “fuso ma non confuso”, come scrisse su un altro, uno dei tantissimi che faceva fare in Afghanistan, dove arrivò nel 1971, perché incuriosito da quella terra che era stata visitata dal suo antenato Giovan Battista. Ecco quindi la nascita di un amore viscerale per quella terra - come poi lo sarà anche il Giappone – cui seguì la grande produzione di quadretti con le sue lettere iconiche e colorate - capaci di formare un senso compiuto se lette in verticale, dall’alto al basso per poi risalire – e la fondazione dell’One Hotel a Kabul, “l’unico dove si poteva mangiare l’insalata perché era il solo dove veniva sicuramente lavata”. I numeri, a cominciare dall’11, erano una delle sue magnifiche ossessioni, “l’unica cosa che esiste al mondo di per sé”, diceva. E poi gli arazzi - a cominciare da quello con i mille nomi – ma anche i ricami e le mappe, quelle con il mondo in bella mostra e il suo punto di vista concettuale e magico. E le donne, da Anne Marie – con cui andò a vivere a Parigi, “dove scoprì tanto, tantissimo”, ricorda sua figlia – a Caterina Raganelli e Alessandra Bonomo. Tra immagini di repertorio e opere coloratissime ed enigmatiche, il successo arrivato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta e la postuma consacrazione tra i grandi, ci sono ovviamente gli amici, su tutti Giorgio Colombo e Salman Alì, il suo assistente in Afghanistan che si portò poi nella città dove scoprì i colori, Roma, facendolo diventare uno di famiglia. “Non decidere nulla, mai”, era il un po’ il suo mantra come l’ossessione per il “tutto”, per il “qui e ora”, manifestato mettendo quante più cose possibili sul suo tavolo da ping pong nell’ultimo studio attaccato al Pantheon. Quella di Boetti è stata davvero una strada piena di bellezza e lui un grande artista che, in quanto tale, unendo in sé nord e sud, caso e necessità, materia e spirito, è riuscito a trasformare certi stati d’animo di disagio, di tristezza e di imbarazzo tipici dell’essere al mondo, in cose belle. Quello sciamano e showman che ha reso il quotidiano oggetto dell’arte e veicolo di bellezza e che ha messo al mondo il mondo, manca a molti, ma per fortuna, tutta quella sua energia che c’è stata, oggi c’è ancora. Più che mai.