Sei ore e dodici minuti di conversazione con Google Meet per capire una generazione, e come ama. Aiuto. Per fortuna oltre alle chiacchiere e ai pochi indizi che si sono affacciati allo schermo - la felpa col cappuccio color ultraverde-speranza di Giada o il cagnone irruente di Alessia e Giulia che ha travolto il loro laptop - ci sono questi ritratti, con sguardi che bucano anche quando le palpebre sono chiuse. La fotografa, Iman Salem, nata in Italia da padre egiziano e madre marocchina, posa nel primo scatto del servizio insieme a Matteo, che se non si capisse è di fenotipo opposto, rosso di capelli, e le tinte non rappresentano l’unico elemento che non hanno in comune, perché si tratta delle loro vite intere, lei cresciuta nel quartiere popolare Stadera di Milano Sud cercando di buttare dalla finestra la sua origine araba e ora alla ricerca della sua voce artistica, lui da sempre italiano, famiglia cosiddetta “solida”, osteopata e docente di osteopatia.

Iman ha iniziato questo progetto per caso, per il matrimonio di Silvia e Dominic, ma poi si è accorta che era circondata da altre coppie di amici, o amici di amici, uniti fortissimamente dalle loro diversità, di varia natura. Il progetto Generation of love andrà avanti chissà quanto, dice, perché il materiale umano spunta dappertutto: il tratto dei suoi coetanei, nati tra il 1991 e il 1995, sembra proprio essere una spinta fortissima a «esprimerci liberamente, amare chi ci pare, stare con chi vogliamo senza nessun metro di giudizio né religioso, né culturale, né razziale».

A volte le utopie si avverano senza accorgersene. Magari non ovunque e non è un caso che questi ragazzi figli dell’amore, ma coi piedi troppo per terra per suscitare fantasie anni Settanta, siano nati o siano arrivati a Milano: che non è Parigi né New York ma non si scandalizza facilmente, può vantare comunque una solida tradizione meticcia e «crea un sacco di collegamenti», spiega Naomi, padre nigeriano e madre umbra, trasferita da Umbertide. Lei sta con Bartolomeo detto Bart, che si autodefinisce «riminese di famiglia supercattolica anzi ciellina». Una famiglia che «all’inizio è stata molto divertente» ma poi quando aveva solo sei anni è scoppiata, il padre di là con un’altra donna e due nuovi figli, la madre di qua con un altro compagno. E lui nel mezzo a provare a stare in equilibrio in un putiferio di certezze che crollano e incomprensibili scelte dei grandi.

naomi okem e bartolomeo cevolipinterest
Iman Salem

Bart, in Naomi, la cui famiglia si è ribaltata quando di anni ne aveva 18, ha senz’altro annusato un po’ del proprio disorientamento. E si può andare avanti con Giacomo che si trovava «sballottato tra la vita regolare di mia madre, col suo compagno molto rigido, e quella pazzerella di mio padre che aveva un bar vicino alla Stazione Centrale, e poi quando ero grande è venuto fuori che era gay». Giada, la sua ragazza, è vissuta a Bali fino ai dieci anni con la madre, e i suoi neanche si ricorda che siano mai stati insieme: «Le nostre famiglie, a cui vogliamo molto bene, ci hanno confuso parecchio e messo in situazioni intense». Lo stesso vale per Silvia, che è cresciuta con una madre separata a cui spesso i nuovi compagni hanno mancato di rispetto, e Dominic che ha raggiunto la sua qui in Italia a 18 anni, finite le scuole in Gambia.

Giulia racconta di un divorzio quando aveva cinque anni e un padre che «ha avuto svariate donne nuove che conoscevo ogni settimana ed è ancora così. Con lui ho comunque un rapporto superbello ma il suo modello non lo voglio replicare».

In queste vite non ci sono state guerre, nessuna turbolenta rivoluzione, sia pure ideologica (a parte quella digitale, decisamente smart), eppure sono successe tante cose: innumerevoli fatti privati, ribaltamenti di relazioni sempre meno organiche e strutturate man mano che le famiglie hanno smesso di venire fuori da una formina e di essere tenute insieme con il mastice. Più che a camminare, hanno dovuto imparare a nuotare nel mondo liquido in cui li hanno tuffati i loro genitori, alla ricerca di scogli a cui aggrapparsi, punti di riferimento tutti da inventare.

Sono gli ultimi ad aver conosciuto un mondo senza social e i primi a poter perdere ogni traccia degli anni migliori della loro giovinezza per qualche stupido problema dello smartphone, zac. È capitato a Iman, a cui si è cancellato tutto l’archivio fotografico, perfetta metafora di altro. Sono i primi ad aver imparato davvero che tutto può essere effimero come un’instagram story, anche il lavoro, naturalmente. «I ragazzi della nostra età sono quasi tutti disoccupati, non sanno cosa fare e allora a 26 anni, come una nostra amica, accettano uno stage a 40 ore settimanali per 600 euro al mese», racconta Alessia che, con Giulia, già prima del Covid stava pensando di andarsene in Spagna «dove per aprire un’attività ci sono più agevolazioni». Il colpo finale è stato inflitto dalla pandemia: «Lavoravo nel posto che sognavo ma l’ho perso, ora Milano è come un luna park spento, e a noi resta la fame di spaccare, di fare, ma restiamo al palo. Meglio provare con un mestiere umile ma cambiando città, non so, Berlino, che ti dia nuovi stimoli e un’altra visione», si sfoga Bart.

Eppure si avverte un magnete, una specie di forza di gravità che li àncora al suolo. Dev’essere che se non puoi raggiungere facilmente ciò che farai e sarai, ti concentri a capire cosa vuoi nell’unico campo in cui puoi ancora scegliere: «L’amore si può interpretare come una passione violenta, difficile da gestire. Per me è un posto sicuro in cui puoi stare tranquillo e sereno. Ti insegna a creare spazi in cui altre persone possano stare bene», dice Iman, che Matteo definisce «l’italiana che pensavo non esistesse» e spiega: «Con lei discutere, scambiarsi cose, è naturale e stimolante, e c’entra da dove viene e la fatica che ha dovuto fare».

La differenza alimenta il matrimonio di Silvia e Dominic, che si sono conosciuti «in un locale di Milano con una bruttissima nomea, frequentato da signore di età avanzata a caccia di giovani africani», racconta Silvia, ma lei era stata trascinata lì da amici e Dominic pure. Dopo due anni si sono sposati e ora condividono una quotidianità non facile, visto che Dominic, operaio edile, si sveglia alle 5,40 del mattino: «Ogni volta che guardo la busta paga mi viene un colpo, vedo che si sono presi di tasse quasi più di quel che ricevo di stipendio». Il sogno è mettersi in proprio, e così chissà quando ci si arriva. Ma se gli si chiede come va tra loro la risposta è bene. «Stare con una persona è difficile comunque, non sento uno strappo perché Dominic è africano. Lui mi ha insegnato la calma, io a farsi sentire. Prima usava un filo di voce e pensava dieci volte prima di parlare».

silvia mazzotta e dominic gomezpinterest
Iman Salem

“Nidificare” è il verbo che viene in mente, e non potrebbe essere più lontano dal concetto di “sistemarsi”. Qui non si tratta di “mettersi buoni” dopo averne combinate tante, né di riprodurre schemi sociali, né di compiacere le aspirazioni di madri e padri, spesso peraltro poco chiare. La questione, invece, è connessa a una ricerca molto evoluta di una felicità fuori standard, la propria. «Aspiro a vivere una vita un po’ più sana a livello mentale, ad avere meno tensioni, morbosità, tossicità», spiega Giada. E Naomi: «Perdono, accettazione e comunicazione. Servono quando si mette male, l’ho imparato da mia madre quando mio padre è sparito due anni, e poi è tornato dicendo che aveva un altro figlio».

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Iman Salem

«A 14 anni ho detto a mia madre che mi piaceva una ragazza, e lei voleva sbattermi fuori di casa», racconta Alessia. «Ho represso tutto fino ai 20, quando mi sono di nuovo innamorata e sono riuscita a fregarmene e a seguire chi ero». Poi è arrivata Giulia: «Guardandola, è come se la capissi in ogni dove e in ogni caso. Ha conquistato anche mia madre, che ci chiacchiera fino alle quattro del mattino». Però sembra che se anche non si rivolgessero la parola, Giulia e Alessia starebbero benissimo lo stesso. E forse è questa suprema emancipazione il più grande spettacolo dopo il big bang.

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Iman Salem