Ogni volta che una donna muore tragicamente e si sospetta che si tratti di femminicidio, come per la 17enne Roberta Siragusa, si rischia un altro passo verso l’assuefazione, di scadere nel victim blaming ("ma che uomini frequentano queste ragazze?") o nei paragoni esterofili. Dopo un 2020 durante il quale la criminalità ha registrato dati più bassi a causa delle limitazioni della pandemia, l’unico delitto di cui non si sono ridotti i numeri è stato proprio il femminicidio, che si consuma per lo più in casa. Mentre si discute poco sulle cause e troppo sulla parola, che definisce invece con precisione l’assassinio di una donna commesso da mariti, fidanzati, compagni, ex lasciati, innamorati respinti, stalker o da parenti per motivi d'onore, non si accetta l'idea che la cultura italiana legittimi ancora intimamente il delitto d'onore, la legge abolita nel 1981 che concedeva forti attenuanti a chi uccideva un membro della famiglia reo (o sospettato) di aver leso col comportamento la reputazione dell'assassino. Si preferisce spostare l'attenzione su una presunta carenza di punizioni "esemplari", come la pena di morte. Ma i dati del Texas, il paese in cima alla classifica Usa dei femminicidi, circa 250 l'anno, confermano che la condanna estrema che qui viene applicata non tiene a bada alcuna forma di criminalità, e men che meno il femminicidio. Un fenomeno che negli Usa si sta concentrando in particolare nelle forze armate, dove nel 2020 ha fatto scalpore la morte di Vanessa Guillén, una 20enne arruolata nell'esercito e uccisa da un commilitone coetaneo che la molestava. A un passo dal Texas c'è il Messico, il paese più violento del mondo che conta circa dieci femminicidi al giorno nella totale assenza di un piano nazionale per arginare il fenomeno. Nonostante l'impegno e la quantità di persone che ne hanno preso parte, a poco sono valse le marce di protesta nel 2020 sotto l'insegna dell'hashtag #NiUnaMás, non una di più.

Nel continente Europa il record in numeri assoluti di donne uccise dai partner o da un famigliare lo detengono Italia, Germania e Regno Unito.

Ma si ignorano quelli di nazioni in cui il fenomeno non viene ancora percepito come tale, per cui non esistono studi specifici che li rilevano, mentre il numero di femminicidi in proporzione con il numero di abitanti è molto alto in paesi balcanici o dell'ex Unione Sovietica, di cui al primo posto il Montenegro. Tutto il continente europeo, tranne la Russia, ha sottoscritto la Convenzione di Istanbul, stilata del Consiglio d'Europa (che non va confuso con il Consiglio Europeo, organo dell'UE) contro la violenza sulle donne e la violenza domestica. Approvata il 7 aprile 2011, dovrebbe imporre agli stati aderenti degli standard globali per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica. Il condizionale è d'obbligo perché all'adeguamento del diritto non sempre corrisponde un'applicazione corretta. "La legge contro il femminicidio in Italia è molto avanzata, e abbiamo ottimi interventi legislativi come il Codice rosso", conferma Diana De Marchi, Presidente della Commissione Pari Opportunità e Diritti Civili del Comune di Milano, "ma dall'altra parte abbiamo un tessuto culturale arretrato rispetto ad altri paesi europei sul ruolo della donna e anche una carenza di formazione dei protagonisti che dovrebbero mettere in atto questa legge, soprattutto sul tema del linguaggio che giustifica la violenza: nelle ultime tre sentenze abbiamo sentito parlare di tempesta emotiva, abbiamo sentito dire che una donna era troppo brutta per essere violentata, o le giustificazioni verso un uomo che era stato lasciato da tutte, e quindi aveva ucciso l'ultima che lo stava lasciando". Anche se il risultato finale non è clamorosamente diverso, la nostra è quindi una situazione un po' diversa dagli Stati Uniti dove, nel 2005, Miguel Angel Torres era nella lista dei quindici most wanted ricercati dall'Fbi dopo aver ucciso la moglie Barbara che chiedeva il divorzio. Sei anni di latitanza durante i quali l'Interpol ha continuato a braccarlo tenacemente. Lo ha trovato sei anni dopo a casa di una famiglia bolognese, dove lavorava come badante. Condannato per omicidio di primo grado al carcere a vita, non ne uscirà più.