Quella di Tom Brady, che ieri notte al Raymond James Stadium si è portato a casa il settimo, ripetiamo settimo, Super Bowl grazie alla vittoria 31-7 dei suoi Tampa Bay Buccaneers contro i Kansas City Chiefs, è la classica storia che solo lo sport può regalarci. Anzi, solo un certo tipo di sport. Dove il confine tra paradiso e inferno è labilissimo, e spesso addirittura si confonde. Così è la boxe, per esempio. Così è il rugby. E così, è ovviamente anche sul football americano. Quello che oggi è considerato una sorta di divinità, che trasforma in oro ciò che tocca e che sembra baciato solo dalla fortuna - è bello, vincente, milionario e, ciliegina sulla torta, si fa per dire, è marito di Gisele Bündchen - non ha un passato da predestinato. Tutt’altro.

La parabola di Tom Brady è come quella di certi protagonisti dei film americani degli anni 50. L’avrebbe potuta scrivere Frank Capra. Lui, ragazzo di 194 cm nato nella San Francisco Bay, ha sempre amato la palla ovale senza però esserne subito ricambiato. Tanto che per i suoi tecnici al college, non sarebbe mai diventato un campione. Quando arrivò al Draft, il sistema di scelta degli atleti da parte delle franchigie negli sport di squadra in America del Nord, non era né la prima né la seconda né la terza scelta. Il miglior giocatore di tutti i tempi è entrato nell’Olimpo passando da un ingresso secondario, scelto con la chiamata numero 199 al sesto giro. Gli analisti lo giudicavano troppo fragile, troppo goffo e con limiti fisici evidentissimi. Al massimo sarebbe potuto diventare un quarteback di medio livello e nulla più, dicevano. E invece… invece il ragazzino innamorato del leggendario Joe Montana, che andava a scuola indossando la sua maglia rossa numero 16, alla fine campione lo è diventato eccome. E ha superato addirittura il maestro. A 43 anni suonati oggi Brady è considerato il più grande della storia, grazie a 21 stagioni NFL e dieci finali raggiunte, sette di queste vinte con cinque titoli mvp (il premio per il miglior giocatore dell’anno). Nessuno come lui, nessuno capace di incarnare più di chiunque altro lo sport simbolo di una nazione intera. Per capirci, Star-Spangled Banner tatuata sulla pelle.

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Kevin C. Cox//Getty Images

Dagli inizi giocando con l’Università del Michigan fino al successo della notte scorsa (davanti agli occhi della moglie Gisele e dell’ex compagna Bridget Moynahan): quella di Tom Brady è stata una marcia inarrestabile. Tormentata all’inizio e trionfale poi. Sono passati oltre vent’anni da quando, al college, faceva la riserva ed era costretto ad assumere uno psicologo sportivo per combattere frustrazione e ansia. La svolta arriverà nel 2000 quando, finalmente professionista, viene chiamato dagli aristocratici England Patriots e finisce sotto l’ala protettiva del suo mentore, Bill Belichick. L’anno dopo vince il primo Super Bowl contro i Rams. Il primo dei sette che lo fanno entrare nel mito. Tom è diventato il primo sportivo americano di sempre (di tutte le leghe professionistiche) a vincere due titoli con due squadre diverse a 43 anni, un’età da pensione per qualsiasi sportivo. “Se non giochi per vincere, non giocare affatto”, “Se hai un’occasione, non sprecarla”, sono le frasi che lo raccontano meglio. Brady si è dimostrato più forte del tempo che passa inesorabile, dei critici (non ha mai negato simpatie trumpiane), del gossip (due relazioni senza troppo clamore e tre figli Benjamin Rein, nato nel 2009, e Vivian Lake, nata nel 2012 e John, che ha 14 anni) e della pandemia stessa. Ha rivoluzionato questo sport fin dalle sue fondamenta, riuscendo a separare la parte mentale dalla sua dimensione fisica. I giornalisti da anni lo studiano come fossero tanti entomologi. Ne analizzano i movimenti, la tenuta mentale, addirittura la dieta. Quest’ultima, definita «antinfiammatoria e alcalina», non prevede né zucchero bianco, né farina bianca, né glutammato. Olio d’oliva crudo, mai cotto. Per cucinare, solo olio di cocco. Solo sale rosa dell’Himalaya, mai sale iodato. Niente pomodori, peperoni, funghi o melanzane. I pomodori, forse, solo una volta al mese. Niente caffè. Niente caffeina. Nessun fungo. Niente latticini.

Ieri nella finale del Super Bowl, impreziosito in apertura dai versi della giovane poetessa Amanda Gorman dedicati ai lavoratori in prima linea nella lotta al virus, Brady ha schiantato il venticinquenne Mahomes, lo sportivo più pagato della storia con un contratto decennale da più di 500 milioni di dollari, firmato lo scorso anno, che molti considerano il suo erede. Ed è stato un po’ come Super Tom avesse voluto fermare il tempo e dire al giovane rivale: “Ehi, non è ancora arrivato il tuo momento. Accomodati pure nell’altra stanza. E aspetta”.

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Mike Ehrmann//Getty Images