Di vita non se ne vive una sola. Ad esempio Pietro Castellitto 30 anni da compiere a dicembre, ne ha già vissute almeno quattro: dall'aspirante sportivo bambino cresciuto dentro alla cultura e al cinema, è stato attore in erba e ha fallito, è stato sceneggiatore e regista di un'opera prima, I predatori, che ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura nella sezione Orizzonti a Venezia 77. Oggi presta corpo e spirito (romanista) alla serie tv più attesa dalle curve di tifosi e ammiratori, Speravo de morì prima, miniserie di Sky sull'ottavo re di Roma tratta dal libro Un capitano e girata da Luca Ribuoli. Il cast promette bene: Greta Scarano è Ilary Blasi, Monica Guerritore la madre Fiorella e Giorgio Colangeli l'amato padre Enzo, Gianmarco Tognazzi l'allenatore (dell'addio) Luciano Spalletti. E lui, Pietro Castellitto Francesco Totti in person. Ruolo dal coefficiente di difficoltà elevatissimo: come si interpreta un mito vivente, un simbolo, la memoria fresca di un calcio di bandiera che non esiste più? Kill your idols non funziona, più facile che l'idolo schiacci te. CVD: alla soffiata sul protagonista di sopracciglia alzate ce ne sono state diverse, tipico di un paese che non è mai uscito dai Mi manda Picone della Prima Repubblica e applica quel metodo coercitivo ad ogni prospettiva. Ci sono volute le clip promo con Castellitto e Totti a rivelare l'approccio: mimesi, responsabilità, disincanto. "È tosta eh?" "Eh, poi io so' pure mancino..." "Allora non la puoi fare la parte mia, io so' destro" "Si può pure girare la tv, ribaltano l'immagine". Breve scambio di cultura capitolina secolare, basata su "quell'ironia che ti porta ad avere una certa sintesi e goliardia allo stesso tempo, a scherzare su tutto, anche su quello su cui non si può scherzare" come l'aveva definita l'attore/regista all'Huffington Post. Passepartout per interpretare Totti, Bignami esistenziale di Pietro Castellitto oggi.

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Classe 1991, fratello maggiore di quattro (dopo di lui Maria, Anna e Cesare), immerso nel fonte battesimale del cinema sin dalla culla (ne Il grande cocomero di Francesca Archibugi), di lui in molti hanno scritto che fosse un predestinato dalla vita, sempre in monocolore. Però a fare l'attore Pietro Castellitto non ci pensava consapevolmente. "Il calciatore, poi il tennista. Volevo costruire alberghi. In alcuni giorni desideravo essere un filosofo geniale, postumo e compreso, altri ancora ambivo all’impero economico" ha raccontato a Vanity Fair. Di tutte le aspirazioni gli è rimasta la fede calcistica nella Roma (le foto allo stadio non mancano sul suo profilo Instagram), e la filosofia quale struttura mentale, non solo la disciplina di laurea di Pietro Castellitto (voluta dal padre, ci tiene a precisare) con una tesi sulla genealogia della morale, indirizzo Antropologia filosofica, a La Sapienza. Filosofo preferito (si può semplificare?): Friedrich Nietzsche. "Mi ha cambiato la vita e in qualche modo è riuscito a tranquillizzarmi. Avevo 17 anni quando ho letto La volontà di potenza, ed era come se improvvisamente alcune sensazioni e disagi avessero trovato le parole giuste" ha detto ad Icon. Questioni universali e non solo adolescenziali: il ruolo di 'figlio di' lo ha dipanato pubblicamente sin da subito, definendone i margini con una espressione onnicomprensiva, frustrazione della retorica. Cui ha replicato con il principio formativo di imparare a gestire la vita andando in tackle sulle pastoie imborghesite del pre-giudizio facile: "Gente che ti giudica senza sapere nulla, che trova sempre la risposta facile ai propri fallimenti, che ti dice che ce l’hai fatta perché sei 'figlio di' oppure che non vali per lo stesso motivo" aveva esplicitato all'HuffPost. Il tema dell'eredit(ariet)à non lo evita: "La frustrazione dell’essere 'figli di' è che spesso, quando sei giovane, confidi nel mondo che ancora non conosci. Vuoi uscire dal circolo dei tuoi amici e familiari, confidi nel futuro" ha chiarito a Vanity Fair. "Quando ti accorgi, poi, che la gente fuori dal cerchio delle tue conoscenze ti conosce già in quanto 'figlio di' e ti giudica male - ti pregiudica – è lì che ti manca l’aria".

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Discriminante, ad essere obiettivi. Un fardello in più per il Pietro Castellitto attore (fallito, ci tiene a specificare, non senza quella ironia): "La mia fortuna è che ho conosciuto il fallimento da giovane e questo mi ha messo davanti al baratro, mi ha portato a vivere le cose fino in fondo". La recitazione è stata la traccia profonda che lo ha portato alla scrittura e alla regia, lo ha spinto a ricollocarsi nel cinema per quanto sempre allegramente (da) precario: da questa presa di coscienza è nato I predatori, il primo film da regista di Pietro Castellitto. Un lavoro minuzioso, scritto a 22 anni, con la lenta consapevolezza che la regia gli si confacesse molto di più rispetto alla recitazione, in cui il confronto era totalizzante e violento a priori. La gavetta da regista l'ha fatta paradossalmente recitando sul set di Freaks Out nel 2018, il secondo film di Gabriele Mainetti la cui uscita è stata posticipata al 2021 causa effetti di postproduzione e pandemia. Guardando in azione l'amico ("Ho molti conoscenti, tanti amici e poche intime affinità perché non credo negli slogan. Gli unici nel mio ambiente che considero amici veri sono i fratelli D’Innocenzo e Gabriele Mainetti. Conoscerli mi ha fatto crescere"), Castellitto ha imparato che la gestione del set richiede molte risorse interiori, forza psicologica, un filino di mitomania: "Per far recitare bene gli attori devi capire bene che carattere hanno".

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Qualità che evidentemente non gli difetta, perché gli attori de I predatori sono indovinati e caratterizzanti -Vinicio Marchioni, Giorgio Montanini, Massimo Popolizio, Anita Caprioli, Manuela Mandracchia, Dario Cassini- sulla base della sceneggiatura, senza apriorismi da manuale Cencelli del casting. Descrivere due mondi diversi, quello dei borghesi radical chic che possiedono materialmente tutto ma non provano più niente a livello emotivo, e quello dei proletari fascisti che rappresentano il grado zero della civiltà e aspirano a cambiamenti incomprensibili persino da loro, è un crescendo grottesco, tra monologhi esplosivi e inquadrature che aprono alle riflessioni, dove non si salva nessuno. E a Venezia 77 ne è stata riconosciuta la freschezza. Pietro Castellitto è parte integrante di una (speranzosa?) nuova stagione del cinema italiano? "Le condizioni per esprimersi – nell’arte, nella letteratura, nelle cose in generale – non vengono dettate dai giovani" disse a Esquire. "A queste condizioni, a quelle che ci sono, si esprimono solo i giovani che di giovane non hanno nulla. I giovani che assecondano i vecchi che hanno ancora il potere". Inquadratura, stacco, riflessione. Adattare la scuola di pensiero di Fromm per un nuovo cinema dell'essere invece che dell'avere? Cautela, Castellitto si smarca comunque. Ma resta il leader involontario di una necessità di smarcarsi dal pregiudizio e liberare le forze creative nuove.