Era il 9 febbraio 2020 e Bong Joon-ho, il regista coreano ormai noto come Director Bong, saliva sul palco per ritirare il terzo Oscar della serata per il suo film Parasite ringraziando e dicendo al pubblico americano che lo stava guardando in tv: “Una volta che si supera la barriera di pochi centimetri rappresentata dai sottotitoli, si scoprono molti film sorprendenti”. Qualche giorno dopo, l'allora Presidente Trump si era lamentato della vincita di Parasite durante un comizio: “Quanto ha fatto male l’Academy Award quest'anno... E il vincitore è... un film della Corea del Sud?! Ma cosa gli è passato in testa? [...] Era bello il film? Non lo so. Ma insomma, non possiamo tornare a Via col vento? Potete ridarci Via col vento? Viale del Tramonto?”.

Per molti americani il tema del razzismo nei confronti degli asiatici suona come una novità. In realtà gli asiatici, come tutti coloro che non sono bianchi nella società americana, sanno bene di come ci si debba contorcere nei modi, nei gusti, nei gesti, nel posizionare la lingua quando si parla al fine di diventare accettabili ed esistere nella società bianca. Il costo che questa comunità ha pagato è stato alto: molti non hanno insegnato ai figli la loro lingua madre per assicurarsi che non avessero problemi di integrazione una volta a scuola, altri non hanno mai mangiato cibo tradizionale fuori dalle mura di casa per timore di commenti non richiesti. E poi la più grande rinuncia, la più esistenziale: dovere cambiare il proprio nome per renderlo più comprensibile o pronunciabile.

Disumanizzarsi per semplificare la vita degli altri.

A differenza dei neri, che sono arrivati incatenati e per secoli sono stati soggiogati e privati di ogni diritto, gli immigrati asiatici sono entrati negli Stati Uniti per sfuggire a guerre e calamità, scappare dalla tirannia o per avere migliori opportunità professionali, se non per loro stessi almeno per i loro figli. Negli anni 60 erano diventati, secondo gli intellettuali bianchi, la minoranza modello: lavoravano sodo e non si lamentavano mai.

Il silenzio è la soluzione che hanno scelto i primi immigrati asiatici una volta arrivati in America di fronte alle difficoltà, per nascondere l'imbarazzo del loro accento, per ingoiare l’amarezza quando vittime di qualche dispetto, per mordersi la lingua ed evitare che certe situazioni si facessero pericolose. Questi silenzi si accumulano, si amplificano, posso anche essere fraintesi e mal interpretati. Questi silenzi rendono le persone "immigrati modello", ma fanno anche dimenticare la storia e gli eventi che contano. La storia degli asiatici negli Stati Uniti è piena di ingiustizie alle quali hanno reagito, spesso, tacendo. A fine Ottocento i primi cinesi arrivavano in California per lavorare e venivano mandati nelle miniere dove ormai di oro c’era solo la polvere e le pepite erano già nelle tasche degli americani. Durante gli LA Riots del ’92 la maggior parte dei negozi saccheggiati o incendiati erano gestiti dalla comunità coreana. Poi l'episodio più vergognoso, del quale non sono state lasciate tracce visibili e relegato alle note nei libri di storia: i campi di internamento durante la Seconda Guerra Mondiale, quando dopo Pearl Harbour per ordine di Roosevelt circa 110.000 giapponesi residenti negli Stati Uniti vennero considerati come possibili nemici e per questo deportati in zone remote come il deserto dell’Idaho dopo aver abbandonato case, aziende, fattorie e possedimenti.

clover tran holds her phone during a candlelight vigil in garden grove, california, on march 17, 2021 to unite against the recent spate of violence targeting asians and to express grief and outrage after yesterdays shooting that left eight people dead in atlanta, georgia, including at least six asian women   police have said suspect robert aaron long, a 21 year old white man, has so far denied a racist motive for the three shootings in the southern us state of georgia photo by apu gomes  afp photo by apu gomesafp via getty imagespinterest
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Manifestanti pacifici a Garden Grove, California

Il recente attacco ad Atlanta, Georgia, dove un ventenne caucasico ha ucciso 8 persone di cui 6 donne asiatiche, arriva in un momento altamente sospetto. Dopo che mesi di proteste e scontri con la polizia hanno finalmente portato a un risarcimento per la morte di George Floyd sembra che il focus della supremazia bianca sia passato dai neri agli asiatici. Da quando, dati alla mano (dal Center for the Study of Hate and Extremism di San Bernardino), la comunità asiatico-americana ha potuto dimostrare l'aumento vertiginoso dei crimini razziali nei loro confronti in questo ultimo anno (+150%, specialmente nei confronti di donne e anziani), molti immigrati di seconda generazione si sono mobilitati sui social per incoraggiarsi a vicenda a denunciare, occupare, rendersi visibili e raccontare le loro esperienze. Sembrano piccole richieste ma sono gesti che richiedono coraggio e possono avere un costo, soprattutto per chi è cresciuto in una cultura dove è meglio stare zitti e non farsi notare. In quanto figli di immigrati, molti di questi militanti sono cresciuti vedendo i loro genitori attraverso la lente del sacrificio in nome del benessere della famiglia e provano un certo senso di colpa nel saper navigare la società americana in cui sono nati a differenza dei loro genitori che sono ai margini della società. Ora stanno chiedendo di essere visti per quello che sono, di andare oltre allo stereotipo di immigrati e figli di immigrati che è stato loro imposto dai bianchi e lo fanno con gli strumenti più vari, dallo chef cinese che usa le ricette tradizionali come strumento di resistenza alla psicologa specializzata in diaspora asiatica che regala pillole per la salute mentale su Instagram.

È passato un anno da quando Director Bong ha invitato gli americani a sforzarsi di leggere i sottotitoli, Trump ha perso le elezioni (e con lui sono sparite le sue insinuazioni sul Chinese virus) e le nuove nomination agli Oscar 2021 sono dominate da tanti talenti asiatici, dalla regista cinese Chloé Zhao agli attori sudcoreani Youn Yuh-jung e Steven Yeun.

C'è forse il clima perfetto per interrompere per sempre questo silenzio intergenerazionale?

*** Fabiana Mariani 37 anni, è docente di storia contemporanea a Boise, Idaho, dove vive da sette anni.