La si vede ovunque ma fino a qualche anno fa non aveva un nome. È sui social media, prezzemolina su Instagram, nelle nostre conversazioni, fa vendere t-shirt e poster incorniciati. Si chiama positività tossica e “Good vibes only” è il suo mantra più diffuso.

La positività tossica è il ritenere che nonostante ci si trovi in una situazione difficile che provoca sofferenza, l'unica possibile reazione accettabile sia un’ondata di ottimismo, solo “positive vibes”. È già nelle nostre vite e ha diverse sfumature in base alla situazione: può essere un parente che alle nostre lamentele ci liquida con un commento sul “vedere il bicchiere mezzo pieno”, può essere ogni immagine su Instagram con l’hashtag #grateful o l'amica che pubblica continuamente post su quanto è produttiva nonostante il lockdown. A volere esagerare, è una sorta di gaslighting che nessuno si merita ma pare incontenibile.

Con la positività tossica che si dirama in rete, le emozioni negative sono viste come cattive di per sé e al loro posto positività e felicità vengono promosse in modo compulsivo negando, minimizzando e annullando l’autenticità dell'esperienza emotiva di noi esseri umani. Questi messaggi iper semplificati fino a diventare vuoti ci distraggono dal problema in questione e occupano lo spazio che dovrebbe essere dedicato alla compassione per noi stessi e, per i drammatici, alla (sana) commiserazione.

Il concetto di positività tossica già serpeggiava da qualche anno, lentamente stava diventando mainstream, ma si è esacerbato quando la pandemia ha bussato alle nostre porte. Ora che si è moltiplicata, la positività tossica è diventata estenuante tanto quanto la semplice negatività. Sin dal 2008 sono state pubblicate ricerche che hanno dimostrato come fallire nel riconoscere e accettare le avversità può avere un effetto deleterio sulla nostra salute mentale. Continui promemoria sotto forma di meme per riflettere su come “andrà tutto bene” in un momento di conflitto e sacrificio non fanno sparire la tristezza, la paura e nemmeno l'ansia. Al contrario, zittire le emozioni negative può farci sentire addirittura peggio.

Accogliamo quindi a braccia aperte l’”ottimismo tragico” che rispetto alla positività tossica ha un approccio più realistico. L’ottimismo tragico ipotizza che nella nostra vita si possa raggiungere un senso di speranza e quiete, ma allo stesso tempo riconosce l'esistenza della perdita, del dolore e della sofferenza. Definito per la prima volta nel 1985 da Viktor Frankl, psicanalista austriaco sopravvissuto all'Olocausto, i sostenitori dell’ottimismo tragico sono convinti che ci sia spazio per sia per il buono che per il cattivo e che possiamo imparare qualcosa da entrambi.

Questo tipo di filosofia potrebbe essere esattamente quel che serve per tirare avanti mentre ci trasciniamo giorno per giorno nella pandemia. Via le panacee stereotipate da Pinterest board, l’ottimismo tragico offre una nuova prospettiva di fronte alle avversità, aiuta nel gestire i momenti di crisi e rende più flessibili. Chi aveva già accettato il fatto che nella vita quotidiana possano esserci ostacoli e difficoltà - e sono mentalmente preparati nel caso compaiano - ha infatti vissuto l'esperienza del lockdown meglio di altri. Più in generale, questa nuova mentalità potrà essere utile nei prossimi mesi anche quando rientreremo, lenti ma euforici, nella nostra vecchia quotidianità. In quel caso, se c’è proprio una t-shirt da comprare, assicuriamoci che dica a caratteri cubitali:

“It’s OK to feel bad”.