L’ho abbracciata, ho pizzicato le corde, il suono si è ingigantito nella cassa armonica e il mio corpo ha cominciato a vibrare. È stata una fusione completa, mai provata prima. Avevo otto anni ed era la prima volta che vedevo un’arpa dal vivo, non potrò mai dimenticarlo.

La mia storia da arpista è nata quasi per caso: l’amore per la bellissima aliena dalla chioma azzurra che suonava l’arpa nei cartoni di Capitan Harlock e le porte del conservatorio di Pescara che si sono aperte a otto anni. Sono la primogenita di tre figli, i miei genitori, entrambi presidi di scuola, hanno sempre voluto avvicinarci alle arti. Con me ci hanno provato con la danza, ma ero goffa. Poi è stato il turno della pittura, ma mi annoiavo. E quindi la musica. Ho iniziato a suonare il pianoforte a quattro anni: quei tasti sono diventati subito il mio gioco preferito.

A otto ho fatto il concorso al conservatorio Luisa D’Annunzio di Pescara e l’ho vinto. La classe di piano, però, era completa, così mi hanno proposto altro. Ero giovane, eclettica. Ricordo la segretaria che mi ha portato in giro per la scuola per farmi conoscere gli altri strumenti: quando l’ho vista, d’oro, grande, bellissima, l’ho collegata a
Lo schiaccianoci e al Lago dei cigni che sentivo spesso in casa. Mi sono seduta, l’ho abbracciata e il mio cuore ha cominciato a battere. Era amore, un rapporto fisico che non ha mai più smesso di accompagnarmi. Anche oggi, 45 anni dopo, quando mi siedo con lei tra le gambe, me l’appoggio sulla spalla, pizzico le corde con le dita e poggio i piedi sui pedali, io parlo di miracolo.

Da bambina ero talmente piccola che per suonare mi dovevano mettere l’enciclopedia sotto i piedi. Nei conservatori ci sono solo arpe a 47 corde, quelle gran concerto, alte 1,85 – 1,90 centimetri, non ci arrivavo. Poi col tempo, crescendo, l’ho conquistata, il mio corpo si è modellato allo strumento, al servizio di bellezza e armonia. Ho imparato a coordinare le mani, i piedi e la mente. E quando sono diventata un tutt’uno con lei, ho cominciato la ricerca del suono perfetto, quell’utopia che nessun musicista riesce mai a raggiungere. Ma che ti permette di non annoiarti mai, anche se ripeti centinaia di volte lo stesso pezzo. Perché la musica non è mai uguale a se stessa e ogni volta che suono qualcosa ci aggiungo una parte in più della mia maturità.

«Tutto il mio corpo si è modellato sullo strumento per creare bellezza e armonia»

Nel giugno del 1995 ho fatto il concorso al Teatro alla Scala di Milano, l’ho vinto e sono diventata la prima arpa: un sogno che si avverava. Allora lavoravo già a Matera al conservatorio: mi sono licenziata senza sicurezze. Le prime parti di un’orchestra hanno un anno di prova: mi sono buttata e sono ancora qui. E non me ne sono mai pentita. Anche se non ci sono domeniche, Natali o Capodanni, anche se l’estate si va in tournée. E con un figlio diventa tutto più complicato. Il mio battesimo sono stati 40 giorni di performance a Tokyo. Poi ho girato il mondo, ho suonato con direttori come Carlo Maria Giulini, Giuseppe Sinopoli e Georges Prêtre, maestri e grandi uomini capaci di farmi entrare nelle partiture. Ho suonato come prima arpa, ma anche concerti da solista. E ogni volta è diversa dalla precedente. Perché ogni direttore aggiunge qualcosa, una virgola, un respiro tra un fraseggio e l’altro. Senza contare i coup de théâtre, che rendono ogni spettacolo diverso dall’altro, il bello della diretta.

Certo c’è tanta fatica fisica. Il nostro lavoro è usurante, gli anni si sentono. La mia colonna vertebrale è provata, la spalla destra è un po’ più alta di quella sinistra, le dita sono storte e i polpastrelli ricoperti da calli, formatisi col tempo e fondamentali per pizzicare le corde. Le mie mani sono come i piedi dei ballerini. Qualcuno addirittura le assicura: io non l’ho mai fatto, ma in cucina devo stare attenta a non tagliarmi, non posso giocare a beach volley quando torno a casa mia, a Fano, dove è lo sport nazionale. Mi è precluso lo sci, così come pure le vacanze lunghe: non posso stare lontano dall’arpa per più di una settimana perché se si rompono i calli, vengono le vesciche ed è sofferenza. Ma le gioie sono tante: quando suono opere di Giacomo Puccini, per cui ho una predilezione, provo sempre i brividi. Perché il mio, il nostro di musicisti, è il lavoro più bello del mondo. Con quegli spartiti immortali, impalpabili, suonati già milioni di volte, cerco l’esecuzione perfetta, consapevole che ci sarà sempre qualcuno che potrà interpretarla meglio di me.

Oggi quando insegno all’Accademia della Scala - lo facciamo noi prime parti - non spiego solo i tecnicismi, cerco di trasmettere la polifonia che c’è nelle corde, la ricchezza sinfonica. Gli allievi arrivano con la padronanza del proprio strumento, ma in un’orchestra bisogna saper ascoltare tutti. E spero sempre che da quella porta entri un ragazzo: in Italia si pensa ancora che sia uno strumento poco virile. Ma al Metropolitan di New York così come all’Opéra di Parigi le prime arpe sono uomini.