Tre ori mondiali, uno europeo, cinque Olimpiadi complessive con cinque medaglie (tre ori, un argento e un bronzo). Cinque come il numero del K2 con Beniamino Bonomi nelle acque di Sydney. Tra i frammenti vintage delle cronache scomposte, esaltate, rauche di Giampiero Galeazzi, le pagine dei giornali riempite di sorrisi post podio in grado di conquistare anche chi a malapena sapeva cosa fosse una pagaia, l'attuale impegno istituzionale (è sottosegretario ai grandi eventi sportivi della Regione Lombardia e si sta occupando delle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026), a lungo testimonial e volto di Fila, a 53 anni Antonio Rossi oggi è sempre, ancora e innegabilmente uno dei grandi campioni della storia sportiva d'Italia. Per chi da ragazzina ritagliava le foto dai giornali e sintonizzava il ciclo sonno/veglia sulle gare olimpiche di K1, K2 e K4 -sapendone, nonostante tutto, sempre troppo poco-, poter ricapitolare successi (tanti) e rimpianti (pochi) del gigante italiano della canoa, il bell'Antonio come veniva apostrofato con poca fantasia, è un autentico tuffo nel lago dei ricordi anni Novanta. Ma è anche un racconto della corporeità dell'atleta, del rapporto irreale col tempo scandito, determinato, ma sempre sfuggente, e del valore delle persone.

Riavvolgiamo il nastro dalla fine. Tu non ti sei mai ufficialmente ritirato.
No anzi, mi sono allargato! (ride) Quando ti alleni per uno sport ad alto livello, hai un rapporto col corpo molto importante. Senti se mangi male, gestisci una macchina perfetta anche per quanto riguarda gli allenamenti, le ore di riposo… Ovviamente, quando smetti di allenarti, pur avendo ancora in testa queste sensazioni capisci che fai poca attività, mangi in modo sregolato, la qualità della vita è peggiorata.

Ti manca un po' l’allenamento?
L’allenamento sì, mi manca moltissimo. Non mi manca tanto l’agonismo: avendo fatto cinque Olimpiadi mi sono tolto tutte le soddisfazioni.

Mi manca invece la vita da atleta, i raduni con gli amici.


Hai mai pensato di ricominciare e risalire in canoa da un momento all’altro?
In canoa ogni tanto ci vado, non spessissimo. Ho smesso a 40 anni e ripensamenti non ne ho avuti.

Qual è l’età per dire stop? È più un approccio fisico o mentale?
Non c'è un’età. Alcuni atleti pensano che si debba smettere all’apice della carriera, allora io avrei dovuto smettere alla mia seconda Olimpiade dopo i due ori di Atlanta, perché più di due ori non potevo sicuramente vincere. Meno male che non ho smesso perché non mi sarei tolto tante altre soddisfazioni come l’oro di Sydney o l’argento di Atene, o il fatto di aver portato la bandiera a Pechino… In realtà io ho sentito la mia gara di Pechino come ultima gara internazionale. Sapevo che quella finale olimpica era l'ultima e me la sono goduta, senza tristezza ma con la voglia di dare il massimo: il concetto di non avere più possibilità di competere ad alto livello per giocarsi uno dei primi posti alle Olimpiadi, penso sia qualcosa che pochi hanno la fortuna di avere.

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Lo sport agonistico è anche una questione di corsa contro il tempo, secondo te?
Non la vedo come corsa contro il tempo, in realtà non percepisci il tempo che passa. Sono sincero: da quando avevo 23 anni a quando ho smesso a 40, mi sembra sia passato poco tempo. Con l'obiettivo dei quattro anni del traguardo olimpico, e l’annuale dei mondiali, hai sempre l’idea di quello che deve succedere l’anno dopo. Non ti fermi mai a pensare al tempo che è passato.

Il tempo e la giovane età sono molto associati all’agonismo. Ci sono alcune atlete come Simone Biles e Danusia Francis che nell’ultimo periodo stanno cercando di rompere queste barriere, dicendo che forse il massimo di carriera non è a 15-16 anni, ma dopo, e parlano di consapevolezza del corpo. È capitato anche a te?
Sì. Pensa nel nuoto: anche quello che sta facendo Federica (Pellegrini, ndr) è qualcosa di unico. Fino a poco tempo fa smettevano davvero presto, come Novella Calligaris che smise prestissimo. Nella ginnastica si sono allungati i tempi, e anche nella canoa. Alla prima Olimpiade a Barcellona 92 avevo 23 anni, e gareggiavo contro dei miti, i neozelandesi Ferguson e McDonald. Avevano 36 anni. Pensavo "ma non hanno nient’altro da fare, a 36 anni? Io non voglio arrivare a 36 anni in canoa". In realtà poi sono arrivato a 40 (ride). È cambiata comunque la metodologia di lavoro, ma più di tutto i mezzi con cui ti alleni, la tecnologia che ti dà un sacco di dati in più: il cardiofrequenzimetro, il satellitare con la velocità… Più dati hai più riesci a gestirli, capisci come fare allenamento.

Il cambiamento principale nel mondo dello sport agonistico è stata quindi la tecnologia…
Sì, e anche la prevenzione di determinati problemi fisici, la sicurezza e la salute dell’atleta. Adesso, grazie a maggiore esperienza e casistica, molti sintomi sono campanelli d’allarme e magari riposi: prima eri affaticato, insistevi, e ti infortunavi. Il mio allenatore mi diceva che quando si allenava lui era vietato bere in acqua: adesso ogni 40 minuti è necessario, si sa che devi bere. Sono dettagli che cambiano tantissimo, fanno crescere la durata della carriera e anche a livello umano.

In alcune interviste del passato, hai parlato del ruolo dello psicologo dello sport a Pechino 2008, dove nella squadra di canottaggio c'erano tante età diverse.
L’ultima Olimpiade l'ho fatta in K4, il kayak a quattro: io avevo 39 anni e mezzo, dei ragazzi avevano 30 anni (Luca Benedini e Franco Piemonte, ndr) e uno 23 (Alberto Ricchetti), due generazioni più giovane di me. Se loro si affidavano alla mia esperienza e al fatto che non potessi perdere, io mi affidavo al loro entusiasmo, alla loro forza nell’interesse comune di vincere, andare a medaglia. Ma la vita era diversa: io avevo figli, per un 23enne alla prima Olimpiade è tutto diverso. Amalgamare la barca e i nostri caratteri non è stato semplice, ma il dottor Vercelli ci ha aiutato anche a distribuire le forze per la gara.

Ti è mai capitato, alla tua ultima Olimpiade, di sentirti discriminato per l’età, o di sentire il peso da "grande vecchio"?
No, assolutamente. Più che discriminato, mi sentivo responsabile nel dare l’esempio agli altri anche durante gli allentamenti, nella condotta della vita regolare del ritiro, o anche lontano dalle gare. Responsabilità e ruolo di tutor per trasmettere l’esperienza, non disperderla.

Esiste una cultura dello sport in Italia? Oggi ricopri un ruolo istituzionale, sei dall’altra parte rispetto all’atleta, la vedi?
Sta crescendo. È cambiata rispetto a quando gareggiavo io, soprattutto agli inizi, ma deve ancora migliorare moltissimo. All'università gli studenti atleti sono più tutelati, c’è la volontà di aiutarli con le sessioni di esami e col fatto che possano gareggiare per l’università.

Si riconosce il valore aggiunto dello sport per chi studia, e anche gli atleti lo riconoscono.

Va ancora migliorato nelle scuole primarie: portare l’insegnante di educazione fisica nelle primarie è una legge che stiamo aspettando da 30 anni. In Regione avevamo fatto un progetto con alcuni comuni per affiancare alla maestra e al maestro un insegnante di educazione fisica, e dai test è emerso che per la mobilità, la coordinazione dei ragazzi, i vantaggi erano enormi. Portare lo sport nella primaria è molto importante. E poi alle superiori, è importante che si faccia negli istituti: quando si cresce magari non si ha più la possibilità di fare sport come in età scolare.

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L’Italia comunque è un paese che sta invecchiando sempre di più, quindi anche lo sport in terza età diventa più importante. Non ti sto dando del vecchio, intendiamoci eh…
(Ride) Figurati, ci stiamo candidando anche per i mondiali master degli sport invernali, arriveranno più atleti che alle Olimpiadi!

È sempre fondamentale mantenere alto il livello di esercizio fisico, al di là dell’agonismo?
Sì, sono convinto. Anche perché ci metti un attimo a impigrirti e a condurre una vita non sana, dovuta al poco movimento. È importante vincere la pigrizia, anche per chi lavora: più fai, meno fatica fai. Sono abitudini che chi fa sport conosce, si rende conto di come sta bene. Poi la passione, è importante nella vita.

Qual è la tua storia con FILA, cosa vi lega?
Sono entrato in FILA appena dopo le Olimpiadi di Atlanta 96, è stato il mio primo sponsor importante. Dovevo decidere tra Fila e Versace, che mi voleva come testimonial per la campagna. Ho scelto Fila perché era uno sponsor sportivo, aveva una cadenza olimpica e me lo sentivo più addosso per quello che è il mio carattere. Ci sono stato quasi 11 anni, fino a dopo il 2008, e sono nate tante amicizie con atleti come Alberto Tomba e Loris Capirossi. L’ho sempre sentita come un rapporto non tanto di sponsorizzazione, ma proprio di famiglia: ci sono sempre stati, mi hanno sempre sostenuto con amicizia e non solo economicamente, ci tenevano ai miei risultati.

Ultimissima domanda, da tua fan che ritagliava le foto per il diario e seguiva le gare anche di notte: quale gara ti è capitato di sognare, e quale avresti voluto rifare da zero per cambiare il risultato?
L'Olimpiade che mi sono sognato, e ho proprio avuto la sensazione di aver già vissuto quei momenti dal riscaldamento, è stata il K1 500 metri di Atlanta, dove ho vinto l’oro. Ho fatto 4 anni ad addormentarmi sempre con quell’immagine. Credo un po' in questo potere della mente, mi son sempre immaginato la gara, la premiazione e via dicendo. Quella che vorrei rifare, anche se abbiamo dato il massimo e se la rifacessimo 10 volte sarebbe sempre lo stesso risultato, è il K4 di Pechino. L’unica gara olimpica dove non ho preso la medaglia, sono arrivato quarto. È una medaglia di legno ma preferivo quella di metallo (ride). Sono mezzo brianzolo e il legno ha il suo valore, però…